Ne abbiamo parlato ne Il coraggio degli Ascari, opera in due volumi che raccoglie le onorificenze conferite, in tempo di pace come di guerra, agli appartenenti delle forze coloniali italiane, che servirono nelle formazioni militari appartenenti alle Forze Armate del Regno d’Italia. E due di loro, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, per le loro azioni e il loro comportamento tenuto sul campo di battaglia, vennero decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare. Alla Memoria. Si, perché entrambi, così come tanti altri come loro, rimasero uccisi in combattimento, dimostrando quanto valorosi fossero gli Ascari. Ibrahim Farag Mohammed, nato nella Massaua italiana nel 1908, entrò subito a contatto con un’Eritrea nel pieno del colonialismo italiano. L’Impero di mussoliniana memoria doveva ancora sorgere ma l’attaccamento all’Italia si fece forte, tanto che nel 1925 si arruolò nella Regia Marina, iniziando a prestare servizio a bordo della Regia Nave Campania, un Incrociatore Leggero che, alla fine degli Anni Venti, venne impiegato per operazioni militari nell’area della Migiurtina. E già allora, l’Ascaro Farag si fece onore: quando, il 28 ottobre 1925, il suo reparto, sbarcato a Bargal, nel nord della Somalia, venne attaccato da alcune bande armate, provocando la morte di tre marinai italiani e di due ascari, combatté con coraggio, venendo decorato per le sue azioni con la Croce di Guerra al Valor Militare.
Promosso fino al grado di Bulucbasci, corrispondente a quello di Sergente, Ibrahim Farag Mohammed allo scoppio del secondo conflitto mondiale si trovava imbarcato sul Cacciatorpediniere Daniele Manin, incaricato, assieme alle altre unità navali dislocate nell’Africa Orientale, prossima alla capitolazione, di compiere un’ultima, disperata, missione contro Port Sudan. Le unità italiane colarono a picco una dopo l’altra, dando inizio ad una nuova epopea, quella della Lancia IA463 alla deriva nel Mar Rosso. Tra i naufraghi a mare vi era anche Farag: scorto però un marinaio del Manin gravemente ferito, cedette il proprio posto all’interno dell’imbarcazione, rimanendo aggrappato fuori dalla scialuppa, fino a quando, stremato dalla fatica, scomparve tra i flutti. Per il suo coraggio e il suo altruismo, venne decorato della Medaglia d’Oro al Valor Militare: “Imbarcato da pochi giorni su Cacciatorpediniere, prendeva parte, distinguendosi per bravura, al disperato tentativo di attacco a base navale avversaria, durante il quale l’Unità veniva sottoposta ad incessanti attacchi aerei che ne causavano l’affondamento. Trovatosi naufrago su imbarcazione a remi con oltre sessanta superstiti, rinunciava volontariamente al proprio posto per assicurare l’altrui salvezza, restando per l’intera notte aggrappato fuori bordo. Esaurito dallo sforzo, anziché chiedere il cambio si allontanava dalla imbarcazione dopo aver ringraziato il Comandante ed affrontava sicura morte, dando luminoso esempio di virtù militari, di spirito di sacrificio e di abnegazione. Mar Rosso, 4 aprile 1941″.
Se nel mare si consumava la tragedia di Farag Mohammed, del Manin e delle altre navi italiane, nei possedimenti dell’Africa Orientale Italiana scorreva inesorabile il conto alla rovescia della resistenza italiana. Nella ridotta di Culqualber, dove circa tremila soldati italiani e ascari si opposero strenuamente ad oltre ventimila soldati inglesi altre pagine di gloria vennero scritte. E tra gli Ascari che non vollero abbandonare la propria posizione vi era Unatù Endisciau, originario presumibilmente dell’Amhara, dove era nato nel 1917. Muntaz (ovvero Caporale) del LXXIX Battaglione Coloniale raccolse attorno a sé altri soldati coloniali superstiti e, sebbene tagliato fuori dalle restanti forze italiane, riuscì a rientrare presso le linee portando in salvo il gagliardetto del Battaglione. Ferito gravemente, spirò poco dopo. La sua morte venne anche immortalata in una delle celebri copertine della Domenica del Corriere e alla sua memoria, venne conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare: “Fedelissimo e valoroso graduato amara, dopo essersi rifiutato fieramente di arrendersi al nemico, in seguito alla capitolazione del ridotto avanzato di Debra Tabor, per esaurimento viveri, con pochi ascari animosi si assumeva l’incarico di raggiungere le retrostanti nostre linee di difesa di Culqualber (Km. 106) per portare in salvo il gagliardetto del proprio reparto. Superate le difficoltà e i pericoli dell’insidia ribelle, fatto successivamente prigioniero da un capo dissidente, riusciva a sfuggire alla cattura, portandosi in prossimità delle nostre posizioni. Gravemente ferito in conseguenza dello scoppio di un ordigno esplosivo, mentre attraversava una nostra zona minata, invocava l’intervento dei compagni per avere l’onore di consegnare in mani italiane la gloriosa insegna del battaglione. Trasportato all’infermeria, in condizioni gravissime, si dichiarava contento di morire entro le nostre linee. Con fierissime parole esortava i compagni a non desistere dalla lotta, esprimendo il proprio convincimento nella immancabile vittoria degli Italiani, data la superiorità di valore in confronto dell’avversario. Fulgido esempio di fedeltà, fierezza, illuminato spirito di sacrificio, profondo e nobile sentimento del dovere. Debra Tabor-Sella Culqualber, luglio 1941″.