Giuseppe Caimi, calciatore e alpino pluridecorato

Il 26 dicembre 1917, moriva all’ospedale della Croce Rossa di Ravenna, in seguito alle gravi ferite riportate il precedente 14 dicembre sul Monte Valderoa, altura del Massiccio del Grappa, Giuseppe Caimi. Tenente degli alpini in forza al Battaglione “Feltre” del 7º Reggimento alpini era il comandante del Plotone esploratori. Con Regio Decreto 23 ottobre 1921, in commutazione della Medaglia d’argento concessa con Decreto Luogotenenziale 13 ottobre 1918 gli venne assegnata la Medaglia d’oro al valor militare per il coraggio dimostrato, con la seguente motivazione:

«Ufficiale di leggendario valore, dopo tre giorni di violentissimo bombardamento e di disperati attacchi nemici, teneva con pochi superstiti, affascinati dal suo mirabile ardimento, una posizione montana di capitale importanza, riuscendo a scompigliare con accanita lotta corpo a corpo le soverchianti forze che l’accerchiavano. Nell’aspra lotta, colpito a morte, cadeva fra i suoi soldati col grido di “Savoia” sulle labbra, segnando ed affermando, anche nella morte, il limite oltre il quale il nemico non doveva avanzare.»
— Cima Valderoa, 14 dicembre 1917.

Nato a Milano il 19 dicembre 1890, dopo aver frequentato il Collegio Calchi-Taeggi, passò poi all’istituto Longone e quindi al Politecnico di Milano. Atleta schermidore dal fisico prestante, militò nell’Inter dal 1911 al 1913, giocando 23 gare in massima divisione.Nel 1912 fu convocato da Vittorio Pozzo nella squadra nazionale per le Olimpiadi di Stoccolma, ma all’ultimo momento fu depennato dalla lista dei partecipanti alla manifestazione sportiva, in quanto, secondo alcuni, Caimi era stato sorpreso in un night di Milano mentre gridava testualmente: “Svedesone bionde, aspettatemi, arriva Caimi!”.

Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò volontario venendo inserito nelle file del 5º Reggimento alpini come sottotenente di complemento distinguendosi in ardite ricognizioni notturne sul Panarotta. Passato successivamente nel Battaglione “Feltre” del 7º Reggimento alpini; si distinse sul Monte Auriol. Ferito una prima volta il 14 marzo 1916 nella battaglia di Santa Maria di Novaledo, fu decorato con la Medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione:

«Incaricato con mezzo plotone, di attirare in una certa direzione l’avversario e attaccato da questo in forze più che doppie, riusciva a disimpegnarsi. Durante il combattimento, si slanciava a raccagliere un ferito abbandonato su una posizione battuta e, benché ferito egli stesso riusciva a trasportarlo in luogo sicuro, continuando poi a combattere fino al termine dell’azione.»
— Santa Maria di Novaledo, 14 marzo 1916

A Sant’Andrea di Valsugana si guadagnò una seconda Medaglia d’argento al valor militare che rifiutò in cambio di una promozione a tenente in servizio permanente affettivo per merito di guerra. Dopo la tremenda sconfitta subita dalle nostre armi a Caporetto, Caimi seguì la ritirata del suo battaglione fino a Montebelluna, venendo decorato con una seconda Medaglia d’argento al valor militare sul Monte Taz il 21 novembre 1917 con la seguente motivazione:

«Ufficiale di coraggio leggendario nel proprio battaglione, sempre primo ad offrirsi per le imprese più temerarie, riconfermava la fama conquistata, gettandosi di sua iniziativa, con un manipolo di audaci su una mitragliatrice nemica che, da vicina posizione, si accaniva contro le nostre truppe, ne uccideva i difensori e catturava arma e munizioni, riportandole nelle nostre linee.»
— Monte del Taz (Treviso), 21 novembre 1917.

Tenente Giuseppe Caimi.jpg

I tenente Caimi con la statua in legno della Madonna da lui intagliata e donata al Capppellano don Luigi Agostini per le celebrazioni religiose.

Nei giorni immediatamente successivi alla conclusione della Prima battaglia del Piave, si trovò coinvolto nei combattimenti che portarono alla stabilizzazione del fronte del Grappa-Piave fino alla successiva Battaglia del solstizio. Per l’azione del 14 dicembre culminata nel suo grave ferimento, gli venne concessa la terza Medaglia d’argento al valor militare, successivamente come visto sopra tramutata in oro, con la seguente motivazione:

«Per scompigliare il nemico soverchiante di numero, più volte, con pochi uomini affascinati dal suo mirabile ardimento, o assalì, e con accanita lotta corpo a corpo, sempre lo respinse. In uno di tali scontri sanguinosi, primo tra i primi, gloriosamente cadde colpito a morte col grido di “Savoia” sulle labbra.»
— Cima Valderoa, 14 dicembre 1917.
— Decreto Luogotenenziale 13 ottobre 1918

All’eroe Caimi venne dedicata una famosa piscina, costruita a Milano nel quartiere di Porta Romana, vero e proprio luogo di benessere e di svago per i milanesi fino ai giorni nostri. Sempre lo stesso comune gli dedicò dapprima una via antistante il vecchio Ospedale Maggiore e poi una nella zona dell’Università Bocconi. L’associazione volontari di guerra di Milano ha commemorato la sua medaglia d’oro al valor militare a un secolo dalla morte. Purtroppo per quasi tutti, Caimi è una piscina.

Il giornale “l’alpino” ha pubblicato il 5 gennaio 1921 a firma del tenente Luigi Gori un bellissimo articolo dedicato alla morte del valoroso tenente Caimi, che Vi invitiamo a rileggere integralmente:

Dicembre 1920.

Tre anni fa in questi giorni, ricordate alpini del Feltre, l’inferno del Grappa?
L’11 cominciò il primo bombardamento; il 12 a Cima Valderoa, la 66ª era di rincalzo alle altre Compagnie del Battaglione. Il monte pareva sprofondare, inabissarsi. I sibili lamentosi, gli schianti, le vampe del fuoco accioccanti, si susseguivano senza fine. Tutto ardeva; la terra lacerata, s’apriva in buche aride, eruttando in un denso nuvolone di fumo, sassi infuocati.

In mezzo alla bufera di ferro e fuoco, un uomo capeggiava alto e sicuro; era il Tenente Caimi della 66^, l’eroe che poi fu chiamato leggendario. Io lo vidi per un momento solo, come in una visione, mentre trasportava, arrancando, una cassa di petardi in galleria, per il plotone pronto ad accorrere nella trincea vicina. Lo vidi comparire e sparire nella nebbia del fumo, che faceva appena intravvedere i lampi e gli uomini chini, che correvano in linea a rimpiazzare i caduti. Udii la sua voce possente : – Alpini, vendicate Fontana Secca!. –

E la sua persona invunerabile, sola con la morte, che più volte in attacchi disperati tentava di abbatterlo, dominava la posizione. Alla sera, cessati l’impeto e la foga nemica, Egli era fra noi raggiante nel vederci ancora salvi e desiderosi di entrare nella mischia. Ed aveva per tutti una parola buona, una parola di conforto, d’incitamento e di lode.
“Non passano, state sicuri, siamo qui noi”. Questo voleva dire : “Sacrificatevi, finchè ci sarà un Alpino, il monte sarà nostro”.

La mattina del 13 fummo destati, ognuno nel suo baracchino, dall’ostinato bombardamento. Dal vano del nostro piccolo ricovero, scorgevamo in un’alba di fuoco, fin giù nella pianura, i lampi e le nuvole bianche degli shrappnels, che parevano scaturire dalla terra graffiata. Ogni tanto la nostra tana era scossa, quasi volesse sprofondare, dai colpi tremendi; la pioggia dei sassi e del terriccio, s’abbatteva sul tetto fragile.

“Fuori ! – gridò una voce – tutti in galleria!”

Ci precipitammo col fucile, il tascapane, tra il fumo denso e l’impeto della bufera infernale. Fuori, come ombre, correvano con le barelle vuote i portaferiti, e venivano giù poco dopo col loro carico dolorante. Niente altro.
Nella mattina la 64ª e la 65ª furono impeto supremo che magnificava. Fu una lotta epica di giganti, da Alpini; esaurite le munizioni, in un impeto supremo che magnificava tutta la loro forza, essi ricacciarono il nemico coi macigni, coi sassi scavati nella terra infuocata.

Non vedemmo il Tenente Caimi; temevamo per lui. L’Attesa era impaziente; dentro la galleria aspettavamo l’ordine di correre in trincea. Fuori continuava il brontolio sordo ed interminabile. Finalmente udimmo la voce nota : “Uscite, prendete il camminamento a destra, fate attenzione perchè a pochi passi c’è un posto scoperto”. E scomparve. Appena giunti sul luogo indicato, ove la rabbia del fuoco aveva abbattuto e sconvolto i ripari, fummo investiti da una raffica di mitragliatrice e costretti a gettarci a terra.

Rimanemmo diverso tempo sotto l’inferno che si scatenava con un soffio possente. Tre dei nostri compagni, in capo alla fila, erano rimasti fulminati; qualcuno si lamentava. Un alpino passò di corsa sul ciglio; mi cadde sopra. Le sue membra ebbero un fremito; percepii gli ultimi palpiti della sua vita quasi fosse unita alla mia e il cuore arrestarsi. Rabbrividii…. Poi, quando la notte stese la sua ombra sopra la terra martoriata, giungemmo in trincea col carico sacro dei morti e dei feriti. Lo stupore, la meraviglia nostra, fu nel vederci comparire dinnanzi il Tenente Caimi. Com’era giunto? come si era salvato da quell’inferno?

Innanzi ai morti, tre ragazzi del ’99, si scoprì con mossa fraterna, pietosa; si chinò su loro, accarezzandone i capelli. “Poveretti” disse. Poi rivolgendosi a noi; “Andate a riposare, domani ci sarà da fare qualcosa. All’erta, questa notte” E se ne andò a sua volta cantando:
Sul cappello che noi portiamo sta una lunga penna nera, che a noi serve da bandiera, su pei monti a guerreggiar.
E l’indomani fu il più bel giorno della nostra storia, Alpini del “Feltre”.

La notte passò calma, senza una fucilata; alla mattina ci destammo sicuri, impazienti di vendicarci, di far scontare con la più tremenda delle rappresaglie l’inutile rabbia nemica. Ma verso mezzogiorno, l’inferno raddoppiò d’intensità; di fronte, alle spalle, ai fianchi, la posizione era battuta furiosamente dal fuoco. “Non passano! non passano” si gridava. In linea c’erano ancora gli avanzi del “Valcamonica” o del “Feltre”. Il nemico sembrava, certo di riuscire, sicuro che sul Grappa regnasse ormai la morte. Noi l’attendevamo riparati alla meglio, nelle trincee sconvolte, come avvinti, attanagliati alla roccia, ma sempre pronti a scattare al momento opportuno.

Da un punto all’altro, il Tenente Caimi, calmo, incoraggiava, esortava, incitava i suoi Alpini a resistere fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultimo respiro. Sette contrattacchi furibondi, sette vittorie disperate, riconsacrarono quel giorno la nostra gloria, dopo quella del Cauriol. Sempre avanti, a capo scoperto, il Tenente Caimi guidava vittoriosamente i resti del Battaglione. Ma la morte, che fino allora in tante lotte disperate lo aveva risparmiato, ebbe il sopravvento.

In un attacco fuorioso, mentre gridava ancora una volta : “Avanti, avanti, non passeranno! Viva l’Italia”, una raffica di mitraglia, lo abbattè. Il corpo rotolò giù per la china, colpito da sette pallottole. Resprava ancora; ebbe la forza di gridare un’ultimo : “Avanti!” ai suoi Alpini, che inseguivano con impeto furioso, baionette alle reni, il nemico, ricacciandolo dalle posizioni. Al portaferiti accorso, che pietosamente lo sollevò dalla pietosa pozza di sangue, ove già rantolava, disse : “Sono felice di averli visti fuggire!”

Al posto di medicazione, il Cappellano, scorgendo il carico glorioso e quel viso grumoso, irriconoscibile, chiese ansiosamente :”Chi è?”
L’eroe, dal volto sfigurato, si levò fiero dalla cintola in su, gettò tutta la sua grandezza sopra gli astanti : “Sono il Tenente Caimi!” e ricadde nel proprio sangue.
Prima di morire, dopo quattro giorni di sofferenze atroci, al fratello inseparabile che l’assisteva, parlava dei suoi Alpini, dei suoi soldati che aveva visto lottare terribilmente, vincere e morire sulla terra dilaniata, arsa, rossa di sangue, gridando :

“Di qui non si passa!”

La sua agonia fu breve. Spirò col nome di due idoli sulle labbra : la Mamma e la Patria. 

S. Tenente Italo Gori
Battaglione “Feltre”