Gli incrociatori Zara, Pola e Fiume, agli ordini dell’Ammiraglio Cattaneo, uscirono dal porto di Taranto alle ore 23:00 del 26 marzo 1941 per riunirsi alla squadra costituita dalla corazzata Vittorio Veneto e dai suoi cacciatorpediniere di scorta al comando dell’Ammiraglio Iachino, in navigazione verso Creta per intercettare e distruggere navi mercantili nemiche.
Nel pomeriggio del 28 marzo la Vittorio Veneto subisce un attacco aereo. L’apparecchio pilotato dal capitano di corvetta Dalyell-Stead riesce ad avvicinare l’ammiraglia italiana fino a 1.000 metri nonostante l’intenso fuoco contraereo sganciando un siluro che la colpisce all’altezza dell’elica di sinistra. La grande nave imbarca 4.000 tonnellate d’acqua, ma riesce a governare, peraltro con una velocità non superiore ai 19 nodi.
L’incrociatore Pola, che con il Fiume e lo Zara navigava in ritirata verso Taranto in fila parallela alla Vittorio Veneto, viene colpito intorno alle 20 da un siluro a poppa e resta immobile. Iachino comanda a Cattaneo di prestare soccorso all’incrociatore colpito. La missione è svolta dagli incrociatori Fiume e Zara che abbandonano la rotta per Taranto, tornando indietro verso il Pola immobilizzato.
L’incauta manovra portò il Fiume e lo Zara dritti verso le corazzate inglesi Warsphite, Valiant e Barham al comando dell’Ammiraglio Cunningham, che si erano avvicinate al Pola per finirlo. Da soli 3.500 metri di distanza i cannoni da 381 della Warsphite centrarono con proiettili da 1.000 Kg l’incrociatore Zara, riducendolo in preda alle fiamme. Stessa sorte toccò all’incrociatore Fiume che affondò capovolgendosi sulla sinistra. Il comandante De Giorgis fu visto in acqua, ferito al viso, aggrappato insieme a molti suoi marinai a una zattera che finì per capovolgersi.
Alle 7:00 del giorno 29 marzo Cunningham riunisce le sue navi a 50 miglia a sud-ovest di Capo Matapan, tornando a giorno fatto nel teatro della battaglia e prendendo a bordo oltre mille naufraghi. L’arrivo di ricognitori tedeschi, interpretato da Cunningham come preparatorio di un attacco aereo, lo induce a interrompere l’attività di salvataggio, ma, con grande senso di lealtà, comunicando alle autorità italiane la posizione dei naufraghi.
La nave ospedale Gradisca, inviata da Taranto, con i suoi appena 15 nodi di velocità giungerà soltanto il giorno 31 marzo e troverà ancora in vita 147 marinai e 13 ufficiali in tutto.
L’incredibile numero di vittime: 2303
Il bilancio della battaglia di Capo Matapan si chiuse con 2303 vittime, di cui 813 dell’incrociatore Fiume. Tra essi c’era Francesco Chirico di Eremiti, frazione di Futani, che a un pezzo di tela, strappato dalla copertura di una mitragliatrice e introdotto in una bottiglia, tappata con la ceralacca, affidò un ultimo toccante pensiero per la madre e per la Patria. La bottiglia navigò per 11 anni nel Mediterraneo per poi approdare sulla spiaggia di Villa Simius, presso Cagliari, nel 1952.
Questo il messaggio: “R. Nave Fiume – Prego signori date mie notizie alla mia cara mamma, mentre io muoio per la Patria. Marinaio Chirico Francesco da Futani, via Eremiti 1, Salerno. Grazie signori – Italia!”.
La medaglia di bronzo
Francesco Chirico è stato insignito della medaglia di bronzo alla memoria, con la motivazione: “Imbarcato su un incrociatore irrimediabilmente colpito, nel corso di improvviso e violento scontro, da preponderanti forze navali avversarie, prima di scomparire con l’Unità, confermava il suo alto spirito militare affidando ai flutti un messaggio di fede e di amor patrio che, dopo undici anni, veniva rinvenuto in costa italiana”.
“Mai decorazione fu più meritata”: questo il commento di Gianni Rocca, autorevole saggista e giornalista di fama internazionale, che è stato condirettore del quotidiano “La Repubblica” e che ha dedicato alla Marina Italiana nella seconda guerra mondiale una documentata ricerca pubblicata da Mondadori col titolo “Fucilate gli Ammiragli”.
Il melo
Francesco Chirico era un figlio del Cilento. L’amore per la sua terra non si era affievolito nel servizio in marina. Portava con sé vivo il ricordo delle sue montagne, degli alberi, dei fiori che disegnava con grande abilità agli inizi delle lettere inviate a genitori e parenti. Con una di queste, datata 1939, inviò alla famiglia i “dovinnoli” di un melo, pregando il padre di seminarli e avere cura delle piantine che ne sarebbero nate essendo semi di una pianta di qualità.
Da quei semi è nato un melo che, a 67 anni dalla nascita, protende ancora i suoi rami verso il cielo, dietro la casa dove nacque Francesco. Su in montagna; da dove, quand’è sereno, si vede in lontananza il mare.
Francesco Castiello