Se poi l’arte si confronta con la Storia, allora il problema del punto di vista è ancor più pressante: lo stesso evento storico si parcellizza infatti in una miriade di sguardi, ovvero molteplici esperienze che si svolgono in parallelo, si sfiorano o si intersecano fra loro. Ci sono, in particolare, numerosi livelli di potere che stratificano l’evento stesso, a seconda dei ruoli e degli incarichi dei personaggi coinvolti: da un lato c’è chi prende le decisioni, e dall’altro chi le subisce. In tal senso, L’ora più buia di Joe Wright e Dunkirk di Christopher Nolan offrono due diverse prospettive storiche sul medesimo evento – l’evacuazione dell’esercito Alleato da Dunkerque fra il maggio e il giugno del 1940 – ma scelgono protagonisti (e livelli di potere) chiaramente opposti. Semplificando, si potrebbe dire che Nolan opti per l’importanza dell’azione, mentre Wright si concentri invece sul ruolo della parola.

L’ora più buia è un resoconto di quei momenti dal punto di vista di Winston Churchill (Gary Oldman), appena incaricato di guidare il governo come Primo Ministro. Churchill deve affrontare una crisi gravissima, nella «darkest hour» della storia britannica: l’ex premier Neville Chamberlain e il suo alleato Edward Wood, conte di Halifax, desiderano avviare i negoziati di pace con la Germania nazista per evitare una catastrofe militare, mentre Churchill vuole proseguire il conflitto fino all’ultimo respiro. La guerra è quasi assente, poiché Wright sceglie di portarci nella “stanza dei bottoni”, quella in cui le alte sfere decidono la sorte dell’intera nazione. Di conseguenza, L’ora più buia è un film dove ogni sviluppo narrativo è affidato alla parola, e alla superiorità dialettica di chi la sa padroneggiare meglio degli altri. La realpolitik di Churchill è collocata in un discorso più ampio, incentrato sul potere manipolatorio della comunicazione verbale, dove la dialettica del leader si rivela così potente da mobilitare le coscienze e sedurre gli avversari. Non c’è quindi da stupirsi che, di là della loro ovvia funzione drammaturgica, le “scene madri” del film corrispondano ai grandi monologhi del Primo Ministro di fronte al parlamento, o in un vagone della metropolitana (episodio completamente inventato), dove Gary Oldman può fare il mattatore: la retorica di Churchill è proprio ciò che risveglia l’orgoglio della nazione, esaltandone i valori e gli ideali in una dimensione astratta, quasi utopistica.
Tutto questo suona paradossale in confronto al terrore, all’ansia e ai pericoli che Christopher Nolan mette in scena nella sua epopea bellica. Se l’elemento primario de L’ora più buia è la parola, quello di Dunkirk è l’azione, non necessariamente dialogata. Per sua stessa ammissione, il cineasta inglese punta tutto sul linguaggio delle immagini, come in un film muto, e divide il punto di vista fra diversi personaggi che corrispondono ad aria, terra e cielo, i campi di battaglia del conflitto. I suoi eroi non sono personalità eccezionali come Churchill, ma individui comuni che danno corpo – spesso inconsapevolmente – a quell’utopia di cui si parlava sopra: i volti dimenticati dalla Storia, ma fondamentali per il suo cammino. Ed ecco allora che l’azione si sviluppa su tre fronti, frammentando il tessuto temporale (un vecchio pallino di Nolan) in un puzzle da ricomporre, scovando tutti i collegamenti interni e la continuità fra le vicende dei personaggi. È sorprendente come Dunkirk e L’ora più buia riescano a essere antitetici, nonostante facciano riferimento alla stessa circostanza storica: se quest’ultimo è fondato sul dominio della parola, sull’unicità del protagonista e sulla linearità narrativa, il primo si affida invece al dominio dell’azione, alla coralità del racconto e ai suoi sviluppi non lineari.

Tale rifiuto della linearità narrativa, traducendosi in un ritmo sempre più serrato, assume un carattere ansiogeno che costringe il pubblico a mettersi sullo stesso piano dei protagonisti, agevolando la sensazione di “trovarsi lì in mezzo”. Wright invece, più “classico” e onnisciente, induce gli spettatori ad astrarsi e osservare dall’alto: non a caso, alterna le macchinazioni di Churchill a quelle dei suoi avversari, e si concede persino qualche sporadica incursione sul campo di battaglia. In entrambi i casi, però, le due dimensioni sono molto lontane le une dalle altre. In Dunkirk, Londra e il governo sono talmente remoti da sembrare quasi irraggiungibili, e le decisioni dei piani alti risultano spesso crudeli o incomprensibili alle orecchie dei soldati; mentre ne L’ora più buia, all’opposto, i boati della guerra sono abbastanza distanti da consentire a Churchill di ragionare lucidamente, facendo scelte rischiose nell’immediato, ma vincenti a lungo termine. Gli echi dell’uno riverberano nell’altro, in un certo senso.
Vederli entrambi, possibilmente a breve distanza l’uno dall’altro, significa sperimentare due punti di vista diversi sulla medesima Storia, in un dialogo ideale fra due opere che – in termini storici – si compensano a vicenda. Ma sono anche due modi differenti di fare cinema, collocati all’interno di due percorsi artistici molto coerenti: Nolan si conferma uno dei pochi autori cui viene concesso di lavorare liberamente nella grande industria, ossessionato dall’indagine sul tempo e dalla corrispondenza tra forma e contenuto; Wright consolida la sua posizione di metteur en scène raffinato, capace di gestire con mano sicura una grande varietà di toni e di generi. In fondo, anche la scelta delle due storie riflette la personalità dei rispettivi cineasti.

L’Ora più Buia farà il suo ingresso nelle sale italiane il 18 gennaio 2018. #LOraPiuBuiaFilm