FEDERAZIONE A.N.C.R. BOLZANO-TRENTO
CAMBIO DI PRESIDENZA ALLA FEDERAZIONE DI BOLZANO TRENTO.
Nel recente congresso della Federazione di Bolzano e Trento, è risultato eletto il nuovo Presidente Cav. Vitantonio Gambetti; contestualmente, dopo settant'anni di Presidenza ininterrotta, il Presidente uscente Comm. Luigi Girelli, che aveva presentato le dimissioni per raggiunti limiti di età, è stato nominato Presidente onorario.
Con l'occasione vogliamo rendere onore al Commendator Luigi Girelli, Presidente Onorario, per l'impegno profuso a favore dell'Associazione e riteniamo doveroso riportare la testimonianza che egli ha rilasciato al giornalista redattore dell'ALTO ADIGE, pubblicata sul citato quotidiano lo scorso 20 luglio 2016, col titolo Il reduce “americano” tra guerra in Africa e prigionia negli Usa. Storia di Luigi Girelli, 95 anni, deportato in Arizona nel 1941.Per 70 anni ha guidato l’associazione dei combattenti.
BOLZANO. Una vita avventurosa. È questa la sintesi perfetta per descrivere l'esistenza di Luigi Girelli, vivace novantacinquenne che a maggio ha deciso di lasciare la presidenza della Federazione provinciale di Bolzano e Trento dell'Associazione nazionale combattenti e reduci. Un ruolo, questo, che ha ricoperto per ben settant'anni: «Ho ritenuto che fosse il momento giusto per dare le dimissioni – spiega Girelli – perché alla mia età iniziava a diventare complicato partecipare a tutte le nostre attività». Non si è trattato, però, di un addio: «Con mia grande gioia, sono stato eletto presidente onorario – prosegue – e questo gesto, oltre ad avermi commosso, mi dà la possibilità di rimanere attivo all'interno della Federazione». Insomma, Luigi Girelli, voce ferma e mente lucidissima, non ha alcuna intenzione di mollare e vuole continuare a lavorare affianco al nuovo presidente, Vitantonio Gambetti, per portare avanti quanto fatto a partire dal 1946, anno in cui rientrò dalla prigionia. Partito nel gennaio del 1941 per combattere in Africa, cadde prigioniero delle forze alleate a Tunisi: «Attraversammo tutta la Libia, poi ci fu la battaglia di El Alamein con gli inglesi che, rafforzati, ci spinsero fino in Tunisia». Dalla capitale del Paese africano, Girelli venne trasferito a Casablanca: «In Marocco rimasi tre mesi e passai di mano in mano: prima ai francesi, poi agli inglesi, infine agli americani». Questi ultimi lo trasferirono in Arizona dove, assieme ad altri prigionieri italiani, fu costretto a lavorare nei campi di cotone: «Ci portarono negli Stati Uniti in nave. I convogli arrivavano carichi di armi e munizioni e ritornavano con i prigionieri. Impiegammo diciannove giorni perché i sommergibili tedeschi perlustravano la zona». Il convoglio navale, infatti, venne attaccato ben tre volte: «In tutte le occasioni ci fecero scendere nella stiva con un sacerdote che ci diede l'assoluzione: ricordo bene quei momenti, eravamo migliaia e non si sentiva volare una mosca». Superate le insidie della traversata oceanica, i prigionieri italiani vennero fatti sbarcare a New York: «Lì ci fecero una doccia per toglierci le pulci, poi ci caricarono su un treno diretto ai campi dell'Arizona». Lo status dei prigionieri oltreoceano mutò nella seconda metà del 1943: «Con l'armistizio dell'8 settembre la nostra condizione cambiò: eravamo diventati “collaboratori”». Girelli passò così a lavorare in un'officina a Oakland, in California: «Ci diedero circa due mesi per rimetterci in forze: io avevo perso quindici chili da quando ero stato catturato. Dopodiché ognuno di noi venne assegnato ad un lavoro diverso: io ero pratico di motori, quindi finii in officina». Il periodo passato in California si rivelò tutto sommato gradevole: «Durante i fine settimana potevamo visitare le famiglie degli italiani di San Francisco. Per noi era una gioia enorme, perché era come stare con dei parenti. Purtroppo qualche “furbetto” tentò di scappare travestendosi da soldato americano e questi incontri non ci vennero più concessi». Dagli Stati Uniti, Girelli sarebbe tornato solamente nella primavera del 1946, ma prima di salpare da San Francisco, attraversare il canale di Panama e sbarcare a Napoli, rischiò di perdere un piede lavorando proprio nell'officina californiana alla quale era stato assegnato: «Un sollevatore si staccò e mi distrusse il piede, ci vollero otto mesi di recupero, ma una dottoressa americana, maggiore dell'esercito, decise che avrebbe provato comunque ad operarmi. Non ho mai capito perché, forse le stavo simpatico e venni ricoverato assieme ai soldati statunitensi. L'operazione durò sei ore, ma alla fine la dottoressa riuscì a evitare l'amputazione». Un intervento fondamentale che gli ha permesso di restare attivo per tutti questi anni e di lavorare per conservare il ricordo di coloro ai quali la guerra non ha dato scampo.