Notiziario: FEDERAZIONE DI MILANO, SEZIONE DI ROSATE: "Mano ignota assassina"

FEDERAZIONE DI MILANO, SEZIONE DI ROSATE: "Mano ignota assassina"

Per gentile concessione del mensile Rosate Notizie, pubblichiamo l'articolo di Paolo Migliavacca "Mano ignota assassina" che descrive, in maniera puntuale e dettagliata, la vicenda della morte di Federico Sacchi. Ringraziamo il direttore Renzo Scaccabarozzi per la cortese disponibilità.
La tomba, nonostante sia ben conservata, rivela i tanti anni passati dal giorno in cui vi fu deposta la salma di Federico Sacchi, un aitante giovane ufficiale uscito indenne dalla Grande Guerra che aveva combattuto con la divisa del Corpo degli Alpini. La tomba è del 1920. Sopravvissuto ai colpi di mitraglia e agli scoppi delle bombe in guerra, Federico Sacchi è caduto due anni dopo, vittima di una bomba in tempo di pace. Tornato illeso dalle montagne, è stato colpito a morte nel centro di Milano. Dopo avere guardato in faccia un nemico ben conosciuto per giorni e giorni, è stato ucciso nel cuore della notte da sconosciuti che hanno colpito alle spalle. La sua tomba nel cimitero di Rosate, con corolle di fiori in rilievo e rami carichi di foglie lanceolate, con l’immagine d’un uomo in divisa nell’ovale incastonato nel marmo, ne riassume in poche parole la vita e gli affetti: “Amore e ricordo congiungono indissolubilmente i parenti desolati all’anima buona di Federico Sacchi capomastro valoroso capitano degli alpini morto a soli 25 anni il 26 giugno 1920”. E, in basso, ci passa una notizia lasciata a metà: “Serena balda giovinezza fioriva nel giardino della vita Mano ignota assassina la troncò Dio conceda il premio dei martiri”. Non furono infatti - come accadde per molti - le conseguenze della guerra a portare anzitempo nella tomba il capomastro di Rosate. Non fu una malattia debilitante presa nelle trincee o sui ghiacciai, o una ferita che ne aveva minato il fisico fino a spegnerne lo spirito vitale. Fu un omicida. Che a muoverne la “mano ignota” fosse stata in qualche modo la guerra, per la verità fu considerato possibile. La disciplina in tempo di guerra era stata rigidissima e molti furono i casi di soldati minacciati o addirittura uccisi dai loro superiori perché non si lanciavano all’assalto, spaventati o ribelli agli ordini. Pare che sia girata per qualche tempo in paese la voce che il capitano Sacchi fosse stato fra quegli ufficiali e che, una volta cessati gli spari e rimessi gli abiti civili, l’abbiano chiuso in un agguato per fargli pagare con la vita le vite spente a quella maniera. Invece no. Federico Sacchi muore a Milano, nelle immediate vicinanze del teatro Alla Scala, sul marciapiede della via Verdi che dalla piazza conduce verso l’Accademia di Brera. Il Sacchi si trova a passare davanti al Caffè Ristorante Cova poco dopo la mezzanotte del 25 giugno 1920. Il 1920 è un anno di scontri sociali e politici sempre più violenti che hanno per protagonisti da una parte anarchici e socialisti, dall’altra le squadre d’azione fasciste di recente formazione. Le Guardie regie (ovverossia il Corpo della Regia Guardia di Pubblica Sicurezza) usano le maniere forti per mantenere l’ordine, ma spesso devono affrontare - oltre alle fazioni politiche - anche le accese dimostrazioni dei reduci dalla Grande Guerra che reclamano terre e lavoro. Quella notte il Sacchi si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Un’auto in corsa imbocca la via Verdi e una mano rimasta sconosciuta lancia una bomba contro le vetrine del Cova, quasi addosso a due passanti che rimangono a terra feriti. Sono entrambi reduci di guerra. Mario Romano ha combattuto da soldato semplice e se la cava con ferite non gravi. L’altro, investito dalle schegge di una bomba, è proprio l’ex capitano di complemento Federico Sacchi. Prontamente ricoverato, morirà poche ore dopo, alle cinque del mattino, all’Ospedale Maggiore senza avere ripreso i sensi. Diversi testimoni sono in grado di descrivere l’auto degli attentatori: è un’auto pubblica, un modello americano. Una Ford, appureranno gli inquirenti ai quali, nella stessa mattina del 26 giugno, si presenta il conducente, un trentasettenne che lavora per la ditta Clara, proprietaria di un garage in viale Monza. Racconta di avere raccolto attorno alla mezzanotte in largo Cairoli due giovanotti ai quali non aveva prestato attenzione e che quindi non è in grado di descrivere. Gli hanno chiesto di portarli a Loreto ma, appena l’auto ha imboccato via Dante, hanno indicato un diverso percorso: vogliono passare per via Verdi. Lo chauffeur esegue, fino a svoltare in via Manzoni. Poco dopo, incrociando via Romagnosi, si rende conto di avere sentito uno scoppio alle proprie spalle. Rallenta e accenna a fermarsi per vedere cos’è successo, ma i due intimano di proseguire dicendo: “Non vogliamo aver fastidi o seccature. Dopo i fatti di questi giorni è meglio girare alla larga e alla svelta”. Sono infatti giorni di grande eccitazione, dappertutto in Italia e soprattutto a Milano. Ci sono diverse categorie (anche i camerieri) in sciopero e scoppiano frequenti scontri fra civili e forze dell’ordine, fra civili e civili, persino tra bande di malfattori e poliziotti. Quel giorno stesso si era svolto il funerale di un rappresentante di commercio che aveva perso la vita nel corso di tumulti a Porta Venezia la sera di martedì 22 giugno ed erano state eseguite le autopsie di cinque vittime di scontri avvenuti in città, tutte e cinque rese cadaveri da colpi di arma da fuoco. Quella stessa notte sul 26 giugno, ad Ancona, un reggimento di bersaglieri si impossessa della caserma in cui è acquartierato per evitare d’essere imbarcato per l’Albania, ancora occupata da truppe italiane, dove sono in corso scontri sanguinosi con la popolazione. È un’estate calda, in Italia. Anche al Cova. Un’altra bomba piazzata davanti a un ingresso secondario esploderà la sera del 7 agosto. Produce danni, ma non ferisce nessuno. La polizia individua gli autori, li arresta e condanna. Sono anarchici. Restano ignoti gli attentatori del 25 giugno, gli omicidi di Federico Sacchi, capo mastro di Rosate, già capitano degli Alpini. Ciò nonostante le indagini portino nel giro di un mese ad un lungo elenco di arrestati. Gli inquirenti eseguono perquisizioni nell’ambiente anarchico, sequestrando bombe del tipo utilizzato quella notte al Cova; spiccano un mandato d’arresto anche per l’autista: diversi testimoni infatti raccontano che i movimenti della sua Ford sono stati ben diversi da quelli da lui dichiarati e che l’auto si era addirittura fermata nelle vicinanze del Cova per far scendere i due attentatori, dar loro tempo di innescare e lanciare la bomba e poi risalire. Alla fine, nei giorni di Ferragosto, scattano le manette per: Tarcisio Robbiati, 23 anni, impiegato senza occupazione; Siro Mascherpa, 28 anni, meccanico (cioè operaio); Angelo Legnani detto Scugnizzo, 23 anni, meccanico; Achille Checchi, 23 anni, verniciatore; Alfredo Brocchieri, 23 anni, meccanico; Umberto Galbiati detto Peppino, 21 anni, meccanico; Pietrino Sini, 21 anni, meccanico; Ottorino Marchetti, 19 anni, meccanico; Pietro Marelli, 20 anni, meccanico; Giovanni Pederneschi, 22 anni, giornalaio; Mario Cazzaniga, 20 anni, ardito in guerra, piazzista; Maria Pellegrini, 17 anni, dattilografa e Olga Bianchi, 19 anni, commessa in un bar del Carrobbio. Abitano tutti fra Porta Ticinese e Porta Genova. Seguiranno detenzione e processi, ma la mano che ha lanciato la bomba di cui è rimasto vittima Federico Sacchi, rimane ignota. E questo viene inciso sulla sua tomba. (Paolo Migliavacca)