Dopo l’8 settembre 1943, la fuga del re Vittorio Emanuele III
L’8 settembre 1943 il presidente del consiglio Pietro Badoglio, uno degli eroi di Vittorio Veneto e da alcuni mesi alla guida del governo italiano dopo l’arresto di Benito Mussolini all’indomani del fatidico 25 luglio, annuncia sommessamente la fine della guerra contro le forze angloamericane con le seguenti parole:
“Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.”
9 SETTEMBRE 1943, LA FUGA DEL RE
La prima e più grottesca conseguenza di quel comunicato fu la decisione del re Vittorio Emanuele III, delle più alte cariche militari, nonché di alcuni membri del governo con in testa Badoglio, di abbandonare Roma e riparare nel Sud liberato, lasciando una nazione, già fortemente provata, nel più totale caos.
Roma, 9 settembre 1943, ore 4.30 del mattino. Nel buio che anticipa un’alba incipiente, un silenzioso corteo di automobili esce dal cortile del Quirinale, destinazione Brindisi. La decisione di lasciare la capitale, un luogo non più sicuro dopo la firma e l’annuncio dell’armistizio, era stata deliberata poco prima dal Consiglio della Corona. Una riunione, c’è da crederci, piuttosto concitata, visto il peso di una scelta e alla quale partecipano il re, Badoglio, i generali Ambrosio, Carboni, Puntoni e De Stefanis, i ministri militari De Courten, Sorice e Sandalli e l’onnipresente ministro della Real Casa, il Duca D’Aquarone. Non il principe ereditario Umberto che, pur contrario alla decisione di lasciare Roma, più volte si offrì per rimanere nella capitale e coordinare le azioni militari contro gli inevitabili attacchi tedeschi. Alla fine, però, dovette piegarsi, accettando obtorto collo l’imperativo categorico che da decenni si recita nelle stanze regali: in Casa Savoia si regna uno alla volta e per il futuro “Re di Maggio” il tempo di salire al trono non è ancora giunto.
Il gruppo dei fuggiaschi si muove alla volta della via Tiburtina, con in mezzo una Fiat 2800, all’interno della quale siedono, nel mutismo assoluto, il re Vittorio Emanuele III e la consorte, la regina Elena, da sempre accanto all’amato marito, anche in quest’ora drammatica e per certi decisiva per le sorti della monarchia.
LE TAPPE DI UN’INDECOROSA FUGA
Alle 23 la carovana motorizzata giunge al porto di Ortona, dopo un viaggio che, anni dopo, sarà raccontato come “avventuroso” per via di alcuni controlli, tre in tutto, operati da parte dei tedeschi lungo il percorso, e che, tuttavia, non sortiscono alcun effetto, visto che ogni volta le auto ripartono tranquillamente. Su quelle “rassicuranti partenze” in seguito gli storici si interrogheranno, ipotizzando che i tedeschi, pur riconoscendo gli illustri ospiti, avessero preferito non vedere, attenendosi a ordini superiori.
Ma nel piccolo porto abruzzese la “Baionetta”, l’imbarcazione che dovrà portare il re e il suo seguito a Brindisi, a quell’ora della sera ancora non è presente, un disguido che crea non poco imbarazzo e preoccupazione. Il re, di certo, non può aspettare lì, non è dignitoso e principalmente è pericoloso, per questo, in attesa che il piccolo natante attracchi, il sovrano con la moglie e altri del seguito viene ospitato presso la villa della duchessa di Bovino a Crecchio. A contattare la nobildonna è Umberto che chiede, ottenendo subito un entusiastico consenso, la possibilità di un breve ristoro. Nelle stanze del castello di Crecchio, sorto in pieno medioevo, avvengono due conversazioni che creano non poco imbarazzo. La prima vede protagonista la stessa duchessa che chiede al maresciallo Badoglio se fosse stato proprio necessario arrestare Mussolini ottenendo, un emblematico e inevitabile silenzio. La seconda, invece, vede primo attore il maggiore Campello che implora, senza esito, al principe Umberto di fare marcia indietro e tornare quanto prima nella capitale.
Mentre gli ospiti si rifocillano, la fuga del re da Roma è ormai una vero e proprio segreto di Pulcinella perché «gli ufficiali dello stato maggiore che nessuno aveva invitato e che dovevano restare a Roma hanno raggiunto Ortona con ogni mezzo».
LA FUGA DEL RE E L’ARRIVO A BRINDISI
All’una in punto la nave Baionetta, sulla quale era anzitempo già salito il presidente del consiglio Badoglio, salpa dal porto di Ortona alla volta di Brindisi, che per alcuni mesi sarà la capitale d’Italia, in una dimensione a metà fra il dramma e la farsa.
La piccola imbarcazione arriva nel porto di Brindisi dopo un viaggio piuttosto tranquillo ma, tuttavia, agitato dalle discussioni fra il re e Badoglio circa i termini dell’armistizio. Vittorio Emanuele III contesta al maresciallo il suo immobilismo davanti a quella che è a tutti gli effetti una resa, ben altro rispetto all’ipotesi di una pace separata, con tanto di riconoscimento dello status di paese cobelligerante, che avrebbe garantito al nostro paese indubbi vantaggi a guerra conclusa.
Il re, pur non palesandolo, è, tuttavia, nervoso. Sente sempre più il peso di quella che è comunque un’indecorosa fuga. Non può non sapere che fra i primi doveri di un sovrano, specie in momenti di estrema difficoltà, c’è quello di non abbandonare il proprio popolo, di rimanere, nonostante tutto, alla tolda del comando di una nave che procede fra mari sempre più perigliosi.
Come secoli addietro la fuga di Varennes era stata fatale per Luigi XVI e la monarchia francese, anche quella messa in atto da quello che un tempo era stato definito il Re vittorioso, sarà di fatto esiziale per le sorti di Casa Savoia. La macchia di quell’alba di inizio settembre si aggiunge inevitabilmente ad altre pagine poco gloriose scritte da quel re che probabilmente tutto avrebbe voluto fare nella vita, tranne che regnare.
10 SETTEMBRE 1943, IL DISCORSO DEL RE
Appena sbarcato a Brindisi Vittorio Emanuele III, dopo un silenzio immotivatamente troppo lungo, torna a parlare. Non lo aveva fatto in momenti cruciali della recente storia dell’Italia, quando aveva lasciato ad altri le parole per dichiarare l’ingresso in guerra o per comunicare agli italiani la caduta di Mussolini. Quel 10 settembre la flebile voce di un sovrano vecchio, stanco e deluso, cerca, non senza un palpabile imbarazzo, di spiegare quello che spiegabile non era, per giustificare un atto che agli occhi di tutti appare semplicemente un’egoistica fuga. Parla di dovere istituzionale, di ragioni di necessità, di sicurezza, ma in quel verbo sottile e impacciato non convince i più, incrinando ancor di più un rapporto già logoro che si spezzerà del tutto il 2 giugno del 1946, quando, nel segreto dell’urna referendaria, peserà e non poco sulla scelta finale degli italiani anche la decisione presa quel 9 settembre di tre anni prima.