È nato e cresciuto a Parma il generale chiamato ad allestire in tempi record due ospedali da campo a Crema e a Piacenza, là dove l’emergenza coronavirus si è accanita con particolare ferocia contro la popolazione, rischiando di far collassare il sistema sanitario.
«Il mio comando è a Roma, mentre la mia famiglia è a Torino, ma il mio cuore resta legato a Parma, dove ho vissuto fino ai 19 anni. È per questo che voglio garantire il massimo impegno a favore della mia terra natale e di tutta la popolazione di quello che in passato era un ducato che univa proprio Parma e Piacenza».
A parlare è il brigadier generale Giovanni Di Blasi, 55 anni e 36 vissuti da soldato, comandante del Comando supporti logistici dell’esercito da cui dipendono anche i reparti sanità, le unità che hanno il compito di allestire gli ospedali da campo.
Voi militari siete abituati ad operare là dove ci sono guerre e catastrofi naturali. Ma questa è un’emergenza diversa da tutte le altre. Che cosa la rende unica?
«Ora dobbiamo combattere contro un virus, che è un nemico invisibile. La difficoltà maggiore rispetto a quando si opera dopo un terremoto o durante un conflitto è data dall’altissima possibilità di contagio. È tutto estremamente pericoloso, basta toccare una superficie contaminata per infettarsi. Il virus dilaga con grande rapidità, ed è per questo che i nostri protocolli sono molto rigidi».
Quanta paura può fare un nemico invisibile come un virus?
«Un po’ di timore serve per adottare tutte le pratiche utili ad evitare il contagio. In Afghanistan ho visto ragazzi uccisi e tornare in Italia dentro un sacco nero. Lì la morte era più tangibile. Qui c’è ma non si vede. Anche se, a dir la verità, in giro circolano solo ambulanze e carri funebri, quindi ti rendi conto che la morte è presenza costante anche qui dove non c’è una guerra in corso».
Come ha reagito la popolazione quando vi ha visti arrivare?
«A Piacenza siamo in un’area militare vicino ad alcuni condomini e abbiamo visto bambini applaudire, mentre sui balconi sono comparsi degli striscioni con scritto “Forza ragazzi siamo con voi”. Gli alunni di una scuola elementare di Quarto ci hanno offerto la pizza, accompagnando il regalo con una lettera di ringraziamento, mentre a Crema, essendo in un piazzale aperto al pubblico, la gente applaude e ringrazia quando passa. La presenza dei militari è un punto di riferimento per la popolazione, che sa di poter contare sul nostro aiuto. In cambio ci ripaga con tanta solidarietà».
Per un generale nato e cresciuto a Parma, cosa significa aiutare questi territori duramente colpiti dal coronavirus?
«Il legame con questa terra mi rende ancor più motivato. Anche nei miei soldati, spesso impegnati all’estero, noto una luce speciale nei loro occhi, perché sanno di lavorare in Italia, per il bene del nostro Paese».
Tornando al vostro lavoro, in che modo riuscite a gestire il contagio negli ospedali da campo?
«Negli ospedali esistono zone definite sporche e zone pulite, dove non deve esserci alcuna contaminazione. La linea di demarcazione fra queste due aree che coesistono all’interno di una stessa struttura è molto labile e questa è la parte più complicata nella gestione dell’emergenza. Va applicata la massima cautela non solo nella cura dei pazienti, ma anche durante le semplici operazioni di manutenzione».
Può fare qualche esempio?
«Anche la semplice sostituzione di una lampadina diventa un’operazione complicata, perché chi interviene deve prima indossare casco, occhiali, guanti, mascherina, tuta e copricalzari. Una volta finito il lavoro, deve procedere alla svestizione, passando infine la suola delle scarpe su speciali tappetini disinfettanti per risultare completamente pulito. Come è facile immaginare, questo virus rende tutto più complesso, ma per ora non abbiamo avuto problemi».
In quanto tempo avete montato i due ospedali da campo?
«Sono stati allestiti in 72 ore, lavorando 16 ore al giorno, grazie all’impiego di 60 soldati in entrambi i casi. Abbiamo iniziato con l’ospedale di Piacenza, la cui realizzazione è stata più semplice, perché è avvenuta nei pressi di una caserma, cioè su una nostra area, mentre a Crema l’ospedale da campo è stato allestito nel piazzale davanti all’ospedale vero e proprio, per cui prima di montare le tende e posare i container abbiamo dovuto fare una ricognizione degli allacci elettrici e idraulici, per lo scarico delle acque».
Come sono state realizzate le due strutture?
«L’ospedale da campo di Piacenza è composto per il 90% da tende. Si tratta di 32 tende pneumatiche, grandi 5 metri per 7, collegate da tunnel e dotate di impianti di ricircolo dell’aria per impedire la diffusione del virus sia all’interno che all’esterno. Sempre a Piacenza un container, chiamato shelter, ospita la farmacia, mentre a Crema gli shelter ospitano la terapia intensiva e la radiologia di ultima generazione destinata a fare le radiografie ai polmoni».
Quanti pazienti può ospitare l’ospedale di Piacenza?
«A Piacenza ci sono 40 posti di degenza sub intensiva, destinai cioè ai malati di media e bassa gravità. C’è anche una terapia intensiva da tre posti. Sempre a Piacenza operano 37 tra medici, infermieri e operatori sanitari. Sono tutti militari e di questi, 33 sono uomini e 4 donne. Le donne sono numericamente inferiori solo perché sono meno presenti nell’esercito. Da noi comunque non esiste distinzione di genere, siamo tutti soldati. Questo ospedale è gestito dal tenente colonnello Donatello Scarano, comandante del primo reparto sanità “Torino”».
E quello di Crema?
«Questo ospedale da campo può ospitare 32 pazienti e ha tre posti di terapia intensiva. L’ospedale è gestito dal tenente colonnello Michele Ricci, comandante del terzo reparto sanità “Milano”, mentre al suo interno operano 52 sanitari, tra medici e infermieri, arrivati appositamente da Cuba. Ricordo che gli ospedali da campo, in caso di necessità, possono essere ampliati nell’arco di 24 o 48 ore, per adattarsi all'evoluzione dell'epidemia».