“Il bubbone è ben evidente. Lo estraggo in meno di un minuto e salgo nel mio laboratorio. Faccio rapidamente un preparato e lo metto sotto il microscopio. Al primo colpo d’occhio riconosco un purè di microbi tutti simili fra loro. Sono piccoli bastoncini tozzi dalle estremità arrotondate”. Questo appunto risale al 1894, appartenente ad un medico e batteriologo franco-svizzero allievo di Louis Pasteur, scopritore di quel bacillo che nella seconda metà del XIV Secolo fu il responsabile dell’uccisione di circa venti milioni di persone in Europa e in Asia: la peste. Il suo scopritore, Alexandre Yersin, si trovava ad Hong Kong proprio perché lì erano stati segnalati dei casi di peste: analizzando i bubboni caratteristici della malattia, compiendo autopsie sui pazienti deceduti a seguito delle gravi complicanze cui andavano incontro una volta contratta, studiando i campioni al microscopio, riuscì ad individuare il batterio responsabile della peste. Per di più, capì che veniva trasmessa dai topi, senza però intuire che da questi animali all’uomo necessitava di un vettore: la pulce. Una malattia, la peste, con cui l’uomo ha sempre convissuto e convive tutt’ora, anche se con una diffusione e un tasso di mortalità molto più ridotti: proprio alla peste (e ad altre gravi malattie epidemiche) si deve la nascita della quarantena come forma di limitazione della diffusione.
Inizialmente chiamata quarantina (in lingua veneta), era la limitazione imposta agli equipaggi delle navi che nel XIV Secolo raggiungevano la città di Venezia: prima di poter sbarcare nella città, dovevano restare a bordo i quaranta giorni necessari affinché non manifestassero i sintomi della peste nera. Nella sua storia più che millenaria, l’uomo ha dovuto convivere fin dalla sua origine con gravi epidemie, spesso incontrollate, comparse improvvisamente e dilagate in tutto il mondo allora conosciuto. L’ultima, grave, forma pandemica con cui l’uomo moderno ha dovuto lottare, che ha lasciato nell’immaginario collettivo paura ed orrore, fu la cosiddetta Febbre Spagnola, grave forma influenzale che fece la sua prima comparsa alla fine della Prima Guerra Mondiale nell’ottobre 1918 per scomparire intorno alla fine del 1920: dietro di sé, si era lasciata tra i cinquanta e i cento milioni di morti (su una popolazione mondiale di circa due miliardi, già devastata dai milioni di morti dovuti alla Grande Guerra). Scriveva il The Ogden Standard l’8 maggio 1918: “L’influenza è diventata epidemica in città. Una scuola riferisce che tutti i bambini ne sono stati colpiti. La malattia non è circoscritta ai bambini. Gli adulti soffrono di mal di testa, mal di gola, pesantezza agli occhi e febbre. Non c’è nulla di allarmante nella malattia, eccetto che frequentemente l’influenza getta le basi della polmonite”. Quella che inizialmente era stata scambiata per una banale influenza, magari un po’ più virulenta e aggressiva del solito, si rivelerà essere, invece, un nemico di fronte al quale molte Nazioni si ritrovarono improvvisamente impreparate. Eppure, già all’inizio del conflitto mondiale, esplose un’epidemia di tifo esantemico, concentrata soprattutto nei Balcani e portata dai soldati austro-ungarici della Galizia dopo l’invasione della Serbia e che, nel piccolo Stato, causerà più vittime del conflitto stesso.
John Reed, Giornalista americano inviato in Europa per documentare la guerra, scriveva tra il 1914 e il 1915 appena mise piede in Serbia: “Con l’arrivo del caldo e delle piogge primaverili, l’epidemia si era attenuata e il virus indebolito. In tutta la Serbia, gli infetti erano ora meno di centomila e i morti solo un migliaio al giorno. A questi però andavano aggiunti i casi della terribile cancrena post tifoide”. Ma quella volta, venne fermata l’epidemia di tifo: così come era arrivata se ne andò. Per un secolo, l’uomo moderno, l’uomo globalizzato, si è sentito sicuro, immune da tutto questo: le epidemie di peste, di colera, di lebbra, di tifo, sembravano solo un retaggio del passato, materia di storici e paleopatologi. Anche la poliomielite, ultima grande malattia ad essere sconfitta nel Novecento grazie al vaccino scoperto da Jonas Salk nel 1955, è diventa, alla fine, un’eco lontana, chiudendo quello che sembrava un capitolo oscuro della storia dell’umanità. Eppure, ciclicamente, questo oscuro e invisibile pericolo si è ripresentato: era il 1976 quando in due sperduti villaggi dell’Africa Equatoriale, Nzara nel Sud Sudan e Yambuku nella Repubblica Democratica del Congo, alcuni casi riconducibili ad influenza particolarmente aggressive iniziarono a manifestare gravi forme emorragiche, compromettendo le funzionalità epatiche e renali dei pazienti. Da allora, il virus Ebola ha ucciso decine di migliaia di persone, a cui vanno aggiunti quelli dovuti ad altre febbri emorragiche, meno conosciute al grande pubblico ma altrettanto letali (Morbo di Marburg, Febbre di Lassa, Febbre di Dengue).
E poi è arrivato il nuovo Millennio, con le sue speranze e le sue paure. La SARS, acronimo inglese di Sindrome Acuta Respiratoria Grave, e l’influenza suina da virus H1N1, comparvero tra il 2003 e il 2009: e forse per la prima volta ci ricordammo di coloro che quotidianamente lottano contro questo nemico invisibile, riconoscibile solo attraverso i potenti microscopi dei laboratori di ricerca. Il 29 marzo 2003 Carlo Urbani, medico e microbiologo originario di Castelplanio in provincia di Ancona, moriva all’ospedale di Bangkok dopo aver contratto il virus SARS quando ancora non era chiara la sua provenienza: fu lui a capire che, visitando un paziente con una grave forma di polmonite acuta, il mondo si trovava di fronte ad un qualcosa di nuovo, che se non contenuto immediatamente si sarebbe diffuso in tutto il mondo con conseguenze inimmaginabili. E quando scoprì di aver contratto la SARS, informò immediatamente le autorità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Che gli diedero ascolto. Ma fece di più. Si mise a disposizione dell’intera umanità, diventando lui stesso il centro della ricerca, lui che della ricerca aveva fatto la missione della sua vita: si fece prelevare campioni di tessuti dai polmoni, così che altri medici e ricercatori potessero continuare la sua opera. Morì dopo diciannove giorni di isolamento: lo Stato Italiano lo ha insignito della Medaglia d’Oro al Merito della Sanità Pubblica alla Memoria e il protocollo di quarantena che ha sperimentato su di sé al momento del contagio, ancora oggi, rappresenta il protocollo adottato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per la lotta, anzi la guerra, contro il Covid-19.