Dalla pace alla Guerra – Mezzo secolo di progresso - La Grande Guerra come apogeo e crisi della società liberale
Favole. Incantesimi dell’animo, come noi oggi sappiamo. E lo seppero ben presto, di persona e per primi, quegli stessi europei che, sul filo di poche settimane, si ritrovarono sgomenti in un buco scavato nella terra, intenti a scavare o a ripararsi dai tiri del tedesco – o del francese – incontrato magari inconsapevolmente qualche mese prima a passeggio sotto la Tour Eiffel. La nostalgia, lo splendore, l’accarezzamento di quel felice anteguerra viene – molto – da quel dolorante e sbigottito confronto. Si vagheggia e mitizza ciò che so è perduto. Il mondo di ieri sembra bellissimo. E altrettanto fragile, se così in fretta si è dissolto [1].
E però, un giusto riequilibrio della visione di quegli anni d’anteguerra porta a riconoscere che non tutto si riduce a un gioco di prospettiva. In quei decenni a cavallo fra i due secoli, il positivismo e la scienza alimentano la ricerca, moltiplicano le scoperte e le applicazioni tecniche; progrediscono la medicina, la chimica, le scienze della natura, ma non rimangono indietro le scienze sociali e metodi d’analisi dell’anima – o del cervello, della psiche, del comportamento, sia individuale sia collettivo (psicologia, psichiatria, psicoanalisi, e sociologia, scienza della politica eccetera).
Dai laboratori dei ricercatori scientifici ai macchinari delle grandi fabbriche, dal crescere vorticoso delle città industriali al moltiplicarsi dei giornali, delle scuole, delle università popolari, delle iniziative sociali e umanitarie, tutto appare dinamizzato e in crescita, lungo traiettorie fiduciose e sicure: l’uomo, il mondo sono conoscibili, trasformabili e dominabili con criteri razionali e benefici.
La pace stessa – quella lunghissima pace fra le potenze che sembra relegare in un oscuro passato le forme primitive di regolazione dei contrasti con la violenza – viene vissuta come il nuovo e naturale quadro dei rapporti fra popoli evoluti e civili. In realtà, la pace non è veramente universale; e le guerre sono state semplicemente esportate ai confini dell’impero dell’uomo bianco, nel mondo giudicato incivile o antiquato dei neri (guerra anglo-boera) e dei gialli (guerra dei boxer e guerra russo-giapponese). Ed è vero pure che non l’intero mondo, ma una manciata di paesi europei – le cosiddette grandi potenze – che vedevano eurocentricamente se stessi come «il mondo» e «la civiltà» avevano raggiunto quel grado di benessere e di sicurezza dell’oggi e del domani, stabilità di ordinamenti, diritti civili, un soddisfacente grado di istruzione e libertà. Ed anzi, all’interno di ciascuno di questi paesi preminenti, non propriamente e ugualmente tutti i cittadini (o sudditi: differenza concettuale e politica non da poco, e tuttavia ancor proponibile persino all’interno di quel mondo apparentemente unificato dal privilegio), ma – in atto – alcune classi superiori, e in potenza – cioè come speranza e sogno socialmente lecito e diffuso – le classi inferiori: organizzate e incoraggiate, nella loro fiducia in un sempre migliore futuro, dai movimenti sindacali e politici della sinistra.
Sono i socialisti della Seconda Internazionale, forti e bene organizzati in Germania, Austria, Francia, Gran Bretagna e anche, in diversa misura, in Russia e in Italia, per citare solo i maggiori fra i paesi di lì a poco coinvolti nella bufera devastatrice di quel conflitto europeo che – proprio per quel senso di carneficina fraterna – qualcuno finirà per considerare una sorta di «guerra civile». «Vorwärts», proclama fiducioso e sicuro il giornale portavoce del più grande dei partiti che hanno accolto e trasformato in movimenti di milioni le teorie di Karl Marx e Friedrich Engels; e «Avanti!» – traducendo il nome del confratello e dandogli ancora maggior slancio con il punto esclamativo – ripete l’organo quotidiano stampato dal 1892 dai socialisti italiani [2]. La socialdemocrazia, che è riuscita a impiantarsi solidamente nel mondo operaio, frutto necessario e temibile dello stesso sviluppo capitalistico, è assai più che un animale parassitario incistato nel corpo altrui; e tuttavia anch’essa è vincolata ai processi e alle sorti dell’organismo nazionale di riferimento e condivide con i suoi antagonisti sociali e politici la fiducia nella illimitatezza dello sviluppo: al termine del quale – in un futuro indeterminato, ma ugualmente gratificante – si intravede quel vago salto di qualità che la dottrina e le attese del movimento proletario chiamano «rivoluzione».
Questo ottimismo storico e questa fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità – borghese o proletaria che sia: l’organo della sinistra francese si denomina, tout court, l’ «Humanitè» – costituisce un marchi d’epoca, un orizzonte di attese diffuso. Lo è sopratutto fra i gradualisti del progresso, come ve ne sono sia fra i conservatori illuminati sia fra i riformisti del socialismo. Né gli uni né gli altri, peraltro, esauriscono le attese del proprio campo. Il liberalismo non soddisfa più parte delle destre [3], così come il riformismo, e quella rivoluzione procrastinata a tempi imperscrutabili, non convincono e non nutrono più a sufficienza entusiasmi e passione del nuovo dei più giovani.
La guerra è luogo di elezione di energie ed eccessi giovanili, ma non per questo dobbiamo pensare che essa sia stata voluta e resa possibile in funzione del malessere dei giovani, comunque collocati nello schieramento ideologico e politico. Accontentiamoci, per ora, di cogliere questi segni di malumore e di ribrezzo, qualche cosa di più di semplici increspature generazionali, indicatori piuttosto dei limiti e delle contraddizioni di questa miscela di ottimismo in cui sembra galleggiare l’autorappresentazione luminosa dell’Europa d’anteguerra.
Parafrasando l’espressione di un politico, qualche anno fa, di successo, il quale attribuiva al suo partito la capacità di guidare il paese un un «progresso senza avventure», potremmo dire che, in quell’Europa spintasi, relativamente ignara, sule soglie del baratro, il progresso indubitabilmente c’era stato e c’era, quelle che a qualcuno mancavano erano le avventure [4]. E questo – come si vedrà – nelle attese e nel giudizio di molti, entro un variatissimo spettro di travestimenti ed opzioni politiche. Ne avranno assai più del bisogno, in misura imprevedibile e distruttiva.
Tratto da
M. Isnenghi – G. Rochat, La Grande guerra. 1914-1918, Il Mulino, 2014, 4 ed.
Note
- N. Valeri, Dalla Belle époque ala fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1975.
- E. Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani (1875-1895). L’influenza della Socialdemocrazia tedesca sulla formazione del Psi, Milano, Feltrinelli, 1961; G. Arfé (a cura di), Storia dell’ «Avanti!» (1896-1926), Milano, Edizioni Avanti!, 1956.
- R.A. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studi sul prefascismo (1908-1915), Torino, Einaudi, 1975.
- M. Isneghi, Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970 (ristampa con postfazione dell’autore Bologna, Il Mulino, 1997 [4])