Così settemila soldati italiani morirono soffocati dai gas
Un ricordo per i caduti sul San Michele nell’ultimo giorno della mostra dedicata al poeta Giuseppe Ungaretti e all’Albero isolato a San Martino del Carso
di LUCIO FABI«Glielo ripeto, caro professore, non è assolutamente vero, come dice la propaganda italiana, che gli ungheresi finivano i soldati italiani intossicati dal gas con le mazze ferrate. Certo, le avranno usate, perché erano un’arma in dotazione ai reparti, ma abbiamo testimonianze che ci parlano al contrario del soccorso dei nostri soldati agli italiani feriti e intossicati».
Questo mi dicevano, scuri in volto e con il dito alzato, alcuni studiosi di storia militare ungheresi l’ultima vigilia di Pasqua nel giorno dell’inaugurazione della mostra di San Martino del Carso dedicata al poeta soldato Giuseppe Ungaretti e al tronco secco del gelso che gli italiani chiamavano “l’Albero isolato”, mentre per i soldati ungheresi a difesa del San Michele era semplicemente l’Albero di Doberdò.
Provo a spiegare che quel giorno, esattamente il 29 giugno del 1916 proprio 97 anni fa, morirono tra atroci spasmi di soffocamento circa settemila uomini dell’esercito italiano, che tuttavia riuscì a rintuzzare l’attacco infliggendo al nemico poco meno di tremila perdite. Provo a spiegare che numerose testimonianze confermano l’uso delle mazze ferrate sulla testa dei soldati italiani che pur intossicati cercavano di difendersi con i fucili e le vanghette. Che spaccavano le teste esattamente come le mazze ferrate, visione che la propaganda italiana ha in seguito diffuso come emblema della crudeltà del nemico austriaco che aveva osato usare, per la prima volta sul fronte italiano, la micidiale e “moderna” arma dei gas asfissianti. In guerra si uccide e si ammazza per ordine dei superiori, ma soprattutto per non farsi ammazzare. Questo si sa, inutile nasconderlo; in seguito il gas venne largamente usato anche dall’esercito italiano, e anche questo è noto. Tuttavia gli amici ungheresi mi guardavano dubbiosi, per loro era importante sottolineare che i loro soldati si comportarono correttamente, almeno secondo i canoni di quella sporca guerra. Non ammazzavano i feriti e i moribondi, ma “soltanto” quelli che si difendevano, e ricoverarono i prigionieri italiani intossicati nei loro ospedaletti, per poi vederli morire lentamente, con i polmoni intasati da una densa schiuma giallastra.
Ma cosa succedette veramente quel giorno? E perché gli austro-ungarici si risolsero, non senza titubanze, a utilizzare per la prima volta il gas su un tratto del fronte italiano? Sappiamo che alla fine di giugno del 1916, allo scopo di allentare l’assedio italiano alle cime del San Michele che ormai minacciava da vicino le postazioni austriache, il comando del VII Corpo d’armata studiò un attacco di alleggerimento con massiccio uso di gas (80% cloro, 20% fosgene) per tentare di far arretrare le trincee italiane oltre l’Isonzo. Dopo alcune settimane di esercitazioni nelle retrovie carsiche, corpi scelti di genieri interrarono circa 6.000 bombole di gas collegate alle trincee con tubi e augelli. Alle 5 e un quarto del mattino del 29 giugno 1916 una parte di esse, circa tremila, sprigionarono una letale nuvola di gas contro le prime linee italiane davanti San Martino e sotto il monte San Michele. I militari italiani, scarsamente dotati di maschere antigas antiquate e poco efficaci, vennero pesantemente colpiti dalla nube tossica. Tuttavia il lancio del gas non risultò perfetto e in alcuni casi, per il malfunzionamento degli augelli, si rivolse contro gli attaccanti; la cosiddetta “nube vagante” inondò le trincee di prima linea ma non riuscì a raggiungere le artiglierie campali poco distanti, e in alcuni punti lascia quasi intatte le posizioni italiane.
Il gas di altre tremila bombole non poté essere indirizzato contro le forti posizioni d’artiglieria del Monte Fortin per assoluta mancanza di vento in quella direzione. Per questi motivi, il successivo attacco di reparti della 17ª e 20ª Divisione Honved, peraltro essi stessi impauriti dai possibili effetti del gas, non riuscì a penetrare in profondità nelle linee italiane, e alla fine l’attacco venne respinto dal fuoco delle artiglierie e dal contrattacco di reparti italiani fatti giungere dalle retrovie.
Per gli italiani fu una grande vittoria contro un “perfido” e spregiudicato attacco nemico - era la prima volta che sul fronte italiano venivano usati i gas - che tuttavia costò perdite pesantissime, in due ore morì più di un centesimo delle vittime di tutta la guerra. Per gli austro-ungarici l’attacco con i gas fu un quasi fallimento, che indusse una fortissima impressione nell’opinione pubblica e fra gli stessi soldati italiani, ma non spostò equilibri e schieramenti sul campo di battaglia.
È stato calcolato che l’attacco con i gas tra Monte San Michele e il villaggio di San Martino procurò oltre duemila morti e 10mila asfissiati tra i soldati italiani, molti dei quali destinati a morire per soffocamento nei giorni successivi negli ospedali delle retrovie, per un totale di non meno di 6.700 decessi accertati. A causa del bombardamento e del contrattacco italiano gli austro-ungarici subirono circa 2.000 morti, non pochi dei quali intossicati dal loro stesso gas. Alla fine della giornata del 29 giugno 1916 la linea del fronte si ristabilì sulle stesse posizioni del giorno precedente.
In quelle trincee inondate dal gas c’era stato, solo due giorni prima, Giuseppe Ungaretti. Un provvidenziale ordine aveva anticipato l’invio del suo battaglione in riposo a Mariano del Friuli. Gli altri battaglioni del 19° reggimento della brigata Brescia, il reggimento di Ungaretti, due giorni dopo vennero investiti e decimati dal gas. Grazie a quell’ordine, il poeta fu risparmiato
da una probabile, orribile morte. E proprio il 29 giugno 1916, da Mariano, Ungaretti scrive un lacerante pensiero ai suoi compagni morti sul San Michele: «Pensavo: non ci sono più foglie sul monte, né cicale, né grilli; e c’è rimasta la mia morte, viva».