Notiziario: Comfort Women: la storia delle Schiave del Sesso dell’Esercito Giapponese

Comfort Women: la storia delle Schiave del Sesso dell’Esercito Giapponese

Di Maria Teresa Trovato in data

Sono moltissimi i fatti storici che, purtroppo, non vengono narrati nei libri di testo scolastici. L’argomento che segue, ad esempio, potrebbe essere trattato nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, come ricordo di chi ha patito le pene dell’inferno senza avere neanche il diritto di ribellarsi.

Era il 18 settembre 1931 quando ebbe luogo un attentato che passò alla storia come “incidente mancese”: il casus belli fu l’idea dei giapponesi di far esplodere una bomba, nella ferrovia di Mukden, fingendo di non conoscerne la provenienza.

L’esercito nipponico usò l’accaduto come pretesto per invadere la Manciuria e successivamente la Cina

Iniziarono a sorgere così nella regione della Manciuria vere e proprie case chiuse per i soldati che vivevano in quel territorio, popolate con donne giapponesi arruolate volontarie in patria.

Fu, però, nell’anno successivo che l’esercito creò la prima comfort station della storia a Shanghai. Le comfort station sorsero con tre scopi fondamentali:

  • Evitare gli stupri ai danni di donne civili che abitavano nelle zone occupate dalle truppe giapponesi
  • Bloccare il diffondersi delle malattie sessualmente trasmissibili
  • Evitare qualsiasi tipo di rapporto con donne cinesi poiché ritenute possibili spie

Fu in questo modo che si diffusero, a macchia di leopardo, case chiuse nelle quali vennero impiegate donne dai 21 anni di età precedentemente reclutate dagli agenti della Polizia o da mercenari assoldati per lo scopo.

Presto le reclute volontarie iniziarono a non essere più sufficienti, per questa ragione si passò anche all’impiego di donne provenienti dai territori occupati, minorenni attratte da false promesse quali “lavoro in fabbrica”, che sarebbe stato l’ideale per il miglioramento della loro condizione economica e sociale. Le donne provenivano da diverse zone come la Corea, Taiwan, il Manciukuò (zona attuale della Manciuria), e la Cina, Filippine, Indonesia, Indie orientali Olandesi e Australia.

Quando, invece, le “buone maniere” non bastavano, le vittime venivano prima malmenate e conseguentemente rapite, poi costrette a prostituirsi all’interno delle comfort station

Le comfort women conducevano un tenore di vita molto duro: vivevano in un ambiente malsano e venivano fatte “lavorare” per dodici ore, dalle 9:00 alle 21:00, tutti i giorni. Ogni donna, durante il proprio turno, doveva soddisfare le esigenze di almeno 30 uomini, anche se spesso il numero di clienti giornalieri arrivava anche a quota 50. Molte “ donne di conforto” spesso non sopravvivevano anche perché i soldati, una volta terminato il rapporto, potevano decidere di continuare a seviziarle e addirittura ucciderle senza incorrere in alcun tipo di punizione. A causa dei numerosi incontri sessuali a rischio, le comfort women contraevano malattie veneree, come la sifilide, che venivano curate con l’arsfernamina, un farmaco potente ma altamente tossico.

Il fenomeno delle “comfort station” ebbe fine un anno dopo il termine della seconda guerra mondiale, nel 1946. Le donne che riuscirono ad uscirne vive, si stima circa il 25% sul totale delle internate, portarono con sé il trauma e lo sdegno per il resto della propria esistenza.

Le stime più caute conteggiano in 50.000 le Comfort Woman, mentre altre parlano di un totale di 300 o anche 400.000 donne internate

L’esigenza di giustizia iniziò a farsi strada quando le sopravvissute, umiliate dall’indifferenza politica e di quella dei leader dei movimenti per i diritti delle donne, portarono in esame l’argomento all’ONU nel 1992, e l’anno successivo si ebbe la “dichiarazione di Kono”, un’ammissione di colpa da parte del Giappone che dichiarò che migliaia di donne erano state destinate alla prostituzione, in modo volontario o meno, costrette a vivere in condizioni inumane.

Il racconto di Kim Bok-dong

Kim Bok-dong è un’anziana donna coreana di 92 anni, e ancor oggi ricorda ogni secondo della sofferenza patita quando, all’età di 14 anni, fu deportata dall’esercito giapponese e costretta a prostituirsi. Kim racconta che lo strazio e l’umiliazione erano talmente forti che provò a togliersi la vita ma, una volta che si fu ripresa, decise che doveva resistere a quel supplizio disumano con la speranza di tornare dai suoi familiari e poter raccontare tutto.

Sotto, un fotogramma dall’intervista di Asian Boss a Kim Bok-dong, disponibile al link:

Nel 1946, quando le comfort station vennero chiuse, Kim aveva 21 anni e potè far ritorno dalla sua famiglia, ma non raccontò nulla ai suoi cari perché voleva evitare loro un’angoscia immensa. Con il passare del tempo, la sua esistenza cambiò: si sposò, ma non riuscì a mettere al mondo dei figli a causa delle cospicue violenze sessuali e delle malattie patite quando era una comfort woman. Fu solo dopo la morte del marito che in Kim subentrò la volontà di raccontare ogni dettaglio di quello che aveva passato, unendosi a tutte quelle donne che, come lei, chiedevano giustizia attraverso il riconoscimento dello status di “schiave sessuali”.

Sotto, una manifestazione delle Comfort Women davanti all’Ambasciata giapponese a Seoul dell’agosto 2011:

Nel 1992 Kim prese parte all’inaugurazione di quella che venne chiamata la “dimostrazione del mercoledì”: una manifestazione in ricordo di tutte le vittime delle comfort station. In occasione del millesimo mercoledì di dimostranza è stata realizzata la statua di una giovane donna, di fronte l’ambasciata giapponese, per ricordare tutte le comfort women che hanno perso la vita. Nonostante la sua età ormai avanzata, Kim ha dato vita a un fondo di aiuto economico, il Butterfly Fund, che punta ad aiutare donne vittime di violenze e in gravi difficoltà economiche, e spera che quest’ultimo, con il tempo, possa riuscire ad agire in un raggio sempre più ampio: riuscendo ad aiutare donne in tutto il mondo che vivano situazioni di sfruttamento e schiavitù sessuale.

Per capire quanto l’argomento sia controverso, nel 2007 il primo ministro del Giappone Shinzo Abe, ha dichiarato che non vi sono prove certe che possano dimostrare che l’esercito nipponico, in passato, abbia reso schiave del sesso migliaia di donne per ben quindici anni. Per questo motivo e per ciò che hanno sopportato sulla propria pelle, le 36 comfort women ancora in vita, supportate da varie associazioni antiviolenz,: lottano tutti i giorni allo scopo di ricevere le scuse ufficiali da parte dell’odierno governo giapponese, difendendo la memoria di quello che è successo e sensibilizzando il più possibile l’opinione pubblica.