( La Repubblica) Ho studiato attentamente la storia familiare di Chaplin, e non ho trovato nessuna prova di una discendenza ebraica; lui stesso, quando era giovane, lo ha precisato chiaramente, anche se in più occasioni, a partire dal 1914, a chi gli chiedeva se fosse ebreo, rispondeva non ho questa fortuna. Una volta, trovandosi a bordo di una nave che lo riportava in Europa, nel 1921, a una ragazza che gli faceva la stessa domanda forse per quei suoi colori strani, i capelli ricci, gli occhi scuri ereditati probabilmente da una nonna zingara Chaplin rispose che no, non era ebreo, ma che pensava che tutti i geni avessero una componente ebraica; e concluse dicendo che forse in lui c' era una sua parte di ebraismo. Quello che è certo è che i nazisti decisero di includere il suo nome in una specie di Who' s who delle personalità ebraiche mondiali. E probabilmente, considerato ebreo dai nazisti, Chaplin finì per considerarsi ebreo nel momento in cui girò Il grande dittatore. Fu allora che dichiarò pubblicamente che, se mai gli avessero nuovamente chiesto se era ebreo, NON AVREBBE PIÙ NEGATO, PERCHÉ NON VOLEVA IN TAL MODO RICONOSCERE IMPLICITAMENTE IL RAZZISMO. Ma la cosa non finì lì. Gli archivi dell' Fbi sono pieni delle più demenziali disinformazioni a proposito del caso Chaplin. A una prima schedatura come ebreo che all' epoca voleva anche dire automaticamente comunista si aggiunse, a partire dal 1923, in seguito a una prima caccia alle streghe ai tempi dell' Attorney General Palmer, che scatenò furibonde aggressioni contro le organizzazioni di sinistra, un assiduo controllo. Hoover, il potente capo dell' Fbi, decise di considerarlo pericoloso per quello che etichettava bolscevismo da salotto. In realtà Chaplin si era limitato ad attaccare la censura che era arrivata a Hollywood con Will Hays, il propugnatore del celebre codice di autodisciplina, e ad appendere l' immagine del medesimo sulla porta del gabinetto dello studio cinematografico. Ma le ragioni profonde di questa diffidenza? Era uno straniero. Non era un conformista. Non si adeguava. Non voleva prendere la cittadinanza americana. Quando, durante la guerra, tornarono ad insistere perché lo facesse, continuò a rifiutare, spiegando che considerava il nazionalismo una delle cause principali dei mali del secolo; lui si considerava un cittadino del mondo. Fin dal 1932, anzi, aveva pronosticato che il patriottismo avrebbe portato a un' altra guerra. Poi c' erano i suoi film. Il suo modo, forse populistico ma sincero e toccante, di rivolgersi agli oppressi, agli underdogs, fu visto come una presa di posizione politica. E in effetti gli attirò la simpatia di gente, come la sinistra americana, che gli era simpatica perché più vivace e più intelligente. Per di più Chaplin non rinnegò mai le sue amicizie pericolose, come quella con Hans Eisler. E non cedette quando l' Fbi montò contro di lui la causa per la presunta paternità del bambino di cui era incinta la starlet Joan Barry. Insomma, quando fu costretto nel 1952 all' esilio inglese, si rammaricò molto di dover lasciare l' America che aveva conosciuto nel 1910, ma non di abbandonare l' America del 1952 e le milleduecento pagine del dossier che l' Fbi aveva raccolto su di lui sulla base di calunnie. Dossier che continuò a crescere anche dopo che era morto, grazie alla storia del rapimento della sua salma. Lei lo dipinge come un santo. C' è invece in giro una scuola per così dire revisionistica, che vede in Chaplin un uomo molto egoista, geloso dei suoi colleghi, calcolatore... Nei vent' anni che ho passato a studiarlo posso invece dire che quello che ho apprezzato di più in Chaplin è la sua onestà umana. Conosco tutte le leggende antichapliniane. Che si sarebbe servito delle persone, che le mollava, che poteva essere arrogante, che era un gran donnaiolo... Ma anche di fronte a qualche episodio ambiguo, non c' è mai stata nei suoi comportamenti traccia di disonestà. Certo, era un artista, e i suoi rapporti con gli altri artisti soffrivano della gelosia e dell' egoismo con cui ogni uomo di spettacolo difende i suoi segreti, la sua arte. Ma si tratta di una gelosia professionale. Quanto alle voci maligne sulla lavorazione di Luci della ribalta, sul fatto che Chaplin avrebbe buttato nel cestino le scene migliori di Buster Keaton, sono leggende prive di senso. E' stato Chaplin a volere Keaton nel film, perché lo sapeva in un brutto momento. E ha trattato al meglio il suo lavoro. Il montatore che ha lavorato all' edizione del film, ricorda che gelosia ci fu. Chaplin, per tutti quelli che lavoravano con lui, e che alla sua presenza erano abituati, era semplicemente il regista. Quando arrivò sul set, Keaton era invece il mito, la leggenda. E Chaplin ne fu turbato. Era il fattore umano della sua professionalità. E se lei dovesse scegliere un' immagine, una gag di Chaplin, di quel suo mondo che va da una Londra dickensiana alla ricchezza e all' eleganza del ritiro svizzero, dalle comiche degli inizi al sogno mai realizzato di girare Freaks, il film su una ragazza a cui spuntano le ali (che avrebbe voluto girare con la figlia Victoria), ali che chiudono come una Nike ironica e poetica l' itinerario chapliniano, lei, David Robinson, che cosa sceglierebbe? Una piccola sequenza di L' emigrante, che è, mi sembra, la summa dell' umanità chapliniana. Charlot è su una nave, un poveraccio, nessuno. Gioca a carte e vince un sacco di soldi, forse barando, non lo so. A un certo punto si accorge che la bella ragazza che durante l' intero viaggio lui ha seguito con lo sguardo è stata derubata, assieme alla madre, di tutti i suoi averi. La sua faccia mostra che è commosso. Va verso di lei, le fa scivolare inavvertito i soldi in tasca. Vediamo che è compiaciuto del proprio gesto. Poi ci ripensa. Infila nuovamente le mani nella tasca di lei e si riprende qualche dollaro. Quindi fa spallucce, e se ne va.
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