Cento anni dei più audaci soldati della Grande Guerra

La costituzione del corpo d’élite, ufficializzata cento anni fa, il 29 luglio 1917, si svolse nel pieno della Grande Guerra
di Andrea Cionci

Teschi d’argento, fiamme nere, pugnale fra i denti... La simbologia “macabra” degli Arditi, che fu ampiamente ripresa durante il Ventennio, può destare oggi inquietudine. Eppure, la costituzione di questo corpo d’élite, ufficializzata cento anni fa, il 29 luglio 1917, si svolse nel pieno della Grande Guerra. Come avvenuto per altri protagonisti del primo conflitto mondiale, la memoria degli Arditi, nell’immaginario collettivo, è rimasta stritolata nella tenaglia della propaganda fascista e della successiva damnatio memoriae del secondo dopoguerra. Ma chi furono realmente questi soldati dotati di smisurato coraggio, vanto del Regio Esercito, che costituirono, in assoluto, le prime unità professionali dell’esercito italiano e gli antesignani degli attuali incursori del 9° rgt. Col Moschin e del Raggruppamento Subacquei ed Incursori «Teseo Tesei» (Comsubin) della Marina militare? 

Soldato della Compagnia della morte con pinza tagliafili  

Dalle pinze al pugnale  

Fin dal 1915, nel tentativo di uscire dall’impasse della stagnante e logorante guerra di trincea, tedeschi e austroungarici avevano costituito pattuglie assaltatrici (Stosstruppen e Sturmtruppen) incaricate di creare varchi nei reticolati nemici, con pinze tagliafili e tubi esplosivi, per consentire l’attacco della fanteria. La risposta italiana fu l’organizzazione delle Compagnie della Morte, i cui militari erano riconoscibili per le pesanti corazze Farina e si distinguevano per il coraggio che consentiva loro di operare direttamente sotto il fuoco nemico. Moltissimi furono i soldati che si sacrificarono volontariamente in questo arduo compito poi sostituito dalle bombarde, sorta di mortai di grosso calibro le cui granate creavano un enorme spostamento d’aria tale da spazzar via il filo spinato e gli altri ostacoli artificiali.  

Il capitano Giuseppe Bassi  

Si avvertì, a quel punto, l’esigenza di creare pattuglie di soldati che avessero non solo il compito di aprire varchi verso le trincee nemiche, ma anche di conquistarle e di mantenerle in possesso italiano fino all’arrivo della fanteria. Nell’estate del ’17, a Sdricca di San Giovanni di Manzano nei pressi di Udine, al cospetto di Vittorio Emanuele III, venne ufficialmente riconosciuto il I° Reparto d’Assalto, formato da tre compagnie, in seno alla 2^ Armata comandata dal Generale Capello.  

(Proprio ieri, a Sdricca, il comando militare del Friuli ha celebrato l’anniversario alla presenza del Generale di divisione Giuseppenicola Tota, capo del V Reparto affari generali dello Stato maggiore dell’Esercito, del colonnello Cristiano Dechigi, direttore dell’Ufficio storico dell’Esercito e dell’associazione d’arma Federazione Nazionale Arditi d’Italia). 

Petardo Thevenot 

Equipaggiamento e addestramento  

Erano, dunque, nati gli Arditi. Il loro distintivo era semplice: un gladio romano con il motto “Fert” di casa Savoia inciso sulla crociera, circondato da un ramo di alloro e da uno di quercia. 

Apparvero anche le fiamme nere, mostrine di panno applicate sui baveri della giubba da bersagliere ciclista, aperta sul petto. Oltre al moschetto Mod. ’91, gli Arditi erano equipaggiati con un tipico, spartano pugnale da trincea, con pinze tagliafili, lanciafiamme e con le prime mitragliatrici leggere, le Fiat Revelli “Villar Perosa” (primo mitra al mondo, di creazione italiana). Tra le bombe a mano, che portavano addosso in quantità, un posto privilegiato spettava a quelle di tipo soprattutto offensivo, che potevano essere lanciate in corsa anche senza la necessità di mettersi al riparo. Tra queste, il Petardo Thevenot, una bomba dotata di un involucro sottile la quale, più che ferire con le schegge, stordiva il nemico producendo un fortissimo fragore.  

Una cartolina degli Arditi 

Le dichiarazioni dei prigionieri austriaci riferivano di quanto fossero terrorizzanti gli attacchi, improvvisi e micidiali, delle pattuglie di Arditi. Questi soldati dovevano conoscere perfettamente anche le armi del nemico, che avrebbero potuto utilizzare soprattutto per mantenere le posizioni appena conquistate. Il loro arruolamento era volontario: i giovani più ardimentosi provenivano soprattutto dagli Alpini, dai Bersaglieri e dalla Fanteria. Gli storici hanno sfatato del tutto la leggenda che li voleva reclutati fra gli avanzi di galera e gli individui patologicamente violenti. Di certo dovevano essere giovani dotati non solo di un coraggio fisico fuori dal normale, di particolari forza, scatto e determinazione, ma anche di alte motivazioni patriottiche. 

«Fiamme Nere, avanguardia di morte, siam vessillo di lotta e d’orror, siam l’orgoglio mutato in coorte, per difendere d’Italia l’onor». Recita così una delle strofe del loro inno ed esemplifica quali fossero i loro ideali e obiettivi.  

L’addestramento era durissimo e le simulazioni impiegavano munizioni vere, non a salve. La rivoluzione operata dal capitano Giuseppe Bassi, “padre” del Corpo, nasceva dalla consapevolezza che per combattere in modo più efficace, era necessario che ogni militare sviluppasse un’appropriata preparazione fisica, tecnica e psichica. 

Il modo di combattere lasciava quindi spazio all’iniziativa individuale e la disciplina interna, pure severissima, era garantita soprattutto da uno straordinario spirito di corpo che legava in modo tenace la truppa ai suoi ufficiali.  

Gli Arditi godevano di alcuni privilegi rispetto ai comuni soldati, sul vitto, l’alloggio, i turni di lavoro, i permessi. Anche questo contribuì a creare in loro una coscienza di élite e, conseguentemente, una certa rilassatezza disciplinare - all’esterno – che, non di rado, provocò alcuni incidenti con i Carabinieri, garanti, invece, dell’ordine e della disciplina più istituzionali.  

Passo Piave, al campo degli Arditi dopo la vittoriosa azione sul Sile  

I successi sul campo  

Fin da subito arrivarono i risultati. Un mese dopo la costituzione, un reparto di Arditi, nell’XI battaglia dell’Isonzo, oltrepassò il fiume alla testa delle fanterie e conquistò il Monte Fratta; in settembre, vi furono conquiste di linee nemiche sul San Gabriele e sull’altipiano della Bainsizza. Alla fine del ’17, gli Arditi si rivelarono fondamentali per arrestare l’avanzata austriaca dopo Caporetto, facendo scudo al ripiegamento – già ben pianificato, va ricordato – dell’Esercito. Si distinsero anche sull’Altopiano di Asiago dove sostennero prove durissime, così come arginarono l’ultimo grande attacco austriaco nel giugno del ’18, sul Piave: «Tutti eroi, o il Piave o tutti accoppati!» divenne uno dei loro motti. Il XXIII Reparto si guadagnò la Medaglia d’oro al Valor Militare durante la Battaglia del Solstizio. Gli audaci colpi di mano condotti dagli Arditi diffusero, mano a mano, la coscienza in tutti i soldati italiani che le nostre truppe fossero superiori a quelle del nemico. E il Maresciallo Diaz ben conosceva l’importanza del morale dei suoi uomini.  

Arditi in esercitazione con il lanciafiamme a Bussolengo  

Un terribile episodio  

Per offrire un’idea delle situazioni che si trovavano ad affrontare gli Arditi e di quanto coraggio e sprezzo del pericolo fossero indispensabili per affrontarle, riportiamo uno stralcio dal diario di un loro ufficiale citato nel volume La Battaglia del Solstizio” di Pierluigi Romeo di Colloredo.  

«Un nostro apparecchio [lanciafiamme] rimase senza liquido: il portatore si difese strenuamente, ma venne circondato e bruciato vivo da una ventina di nemici inferociti. Era questa la triste sorte riservata ai rosticcieri [sic] dei lanciafiamme. Mi faccio avanti contro quella masnada imbestialita che sta ancora trafiggendo il cadavere di quel poveretto. Intervenne un altro sergente che cominciò a spruzzare di liquido fiammeggiante quell’assembramento di belve, bruciandole tutte. Mi avvicinai allo spruzzatore in azione e udii scoppiettare le pallottole racchiuse nelle giberne degli avversari che ardevano come torce ed aizzai il vendicatore a proseguire la sua opera distruggitrice, finché non avesse terminato il liquido infiammabile». 

Arditi decorati dopo un’azione sul Monte Corno  

Il sacrificio  

Da 30 a 35 mila Arditi portarono il loro slancio nella Prima guerra mondiale: si contano oltre 3.000 decorati, tra cui spiccano 20 medaglie d’oro al valor militare e 3.000 caduti: ne morì circa uno su dieci. La mortalità nelle file di questi soldati fu altissima, ma il loro sacrificio contribuì a far vincere la guerra all’Italia.  

L’Ardito Ciro Scianna muore baciando il Tricolore  

Un oblio ingiustificato  

Con l’avvento del Fascismo, i reduci si divisero tra fascisti e antifascisti. A tal proposito, il recentissimo volume di Andrea Augello Arditi contro (Mursia ed.) racconta la storia di un gruppo di giovanissimi ex Arditi che, nel 1919, si coagularono in un sodalizio politico e rivoluzionario da cui partirono due esperienze diversissime e antagoniste tra loro, il Fascio di combattimento romano e gli Arditi del Popolo, di ispirazione socialista e comunista.Anche dal punto di vista militare, durante la Seconda Guerra mondiale, la storia degli Arditi seguì quella del popolo italiano. Ricostituiti, nel 1942, come X Rgt. Arditi del Regio Esercito, si fecero onore, insieme alla div. Livorno, nella difesa della Sicilia durante lo sbarco americano. Dopo l’8 settembre, alcuni reduci del reggimento, in special modo quelli del II Battaglione Arditi al comando del maggiore Marciano, risalirono al nord e furono inquadrati nella divisione di Fanteria di marina «San Marco» della Rsi.  

Altri reduci, rimasti a Roma, invece, aderirono alla Resistenza come, ad esempio, il capitano Baliva già comandante della 101ªCompagnia Paracadutisti che con altri ufficiali e sottufficiali paracadutisti entrò a far parte del Gruppo Bande «Valenti». Anche il I Battaglione del X rgt. Arditi, passò con l’Esercito del Sud, alleato degli angloamericani. Il 20 marzo 1944 assumeva il nome di IX Reparto d’Assalto. Guadagnò una prima medaglia d’argento durante la battaglia di Ancona e una seconda nella battaglia per Bologna. Infine, una Compagnia del IX Battaglione, il 30 aprile 1945, sosteneva a Ponti sul Mincio l’ultimo combattimento in Italia, non solo italiano, ma anche alleato, contro un reparto di Waffen-SS che cercava di raggiungere la Germania.