Il reduce della strage del ‘43 nell’isola greca racconta come sfuggì alla morte: «Il mio boia era un bolzanino, ci conoscevamo: arruolato con me, era passato alla Wehrmacht»
«Quando vidi i tedeschi alzai le mani, non scappai e andai verso di loro. Giunto a una decina di metri, quello dei tre che mi puntava la pistola mitragliatrice mi riconobbe. Ci conoscevamo da tempo e non sparò. Ne rammento solo il cognome, Koffler. Era partito militare con me nel 1937. Era altoatesino e dopo lo scoppio della guerra scelse di indossare la divisa della Wehrmacht, lasciando il grigioverde. Mai più incontrato sino a quel giorno. I due con lui insistevano per fucilarmi ma Koffler mi diede due calci e gridò: “porco italiano, vattene”. Io indietreggiai scomparendo fra gli uliveti: i tre ripresero ad ammazzare i nostri».
La mattanza degli italiani
L’isola greca di Cefalonia, 18 settembre 1943, avvio della mattanza dei militari italiani da parte delle truppe tedesche. Dopo violenti combattimenti e la resa, vengono passati per le armi circa 5.000 soldati della divisione Acqui. Sopravvivono in pochissimi. Bruno Bertoldi — 100 anni compiuti il 23 ottobre — è l’ultimo di loro. Trentino, bisnonno, vedovo, a guerra finita si è stabilito a Bolzano, facendo l’operaio. È vigoroso, lucido, cucina da sé. Il suo racconto è quello di un uomo come tanti, in bilico tra piccole viltà e gesti di gran coraggio. Se ci consente un paragone, riassume certi personaggi di quei film che stanno nel nostro Dna. È il Sordi di «Tutti a casa» ma anche il Sordi e il Gassman di «La Grande guerra». E perchè no: pure tutti i protagonisti di «Mediterraneo», quelli di «una faccia una razza».
Non è un eroe, Bruno: è un uomo per bene che in guerra ha cercato di sopravvivere e che quando si è trovato a dover scegliere — scelte durissime, terrificanti — è sempre stato dalla parte del dovere e della dignità. « Nell’esercito neanche diciottenne — fu sua madre a insistere, non voleva che si spaccasse la schiena sui campi come gli altri figli — diventa capo del reparto motorizzato della Acqui inviata tra Ionio ed Egeo. Almeno agli inizi, il conflitto lo vede da lontano: «La vita a Cefalonia era tranquilla, si mangiava e si beveva ed eravamo pieni di fidanzate...» Figurarsi: due o tre ragazze vennero anche a trovarlo in Italia «ma io – sorride — non avevo promesso niente a nessuno...»
Da alleati a nemici
I ricordi partono dalle cannonate italiane che bersagliando tre motozattere tedesche danno il via alla violenta battaglia. «Non volevo combattere, volevo cedere le armi» ammette oggi il sergente Bertoldi. Che scuote la testa riguardo alla «consultazione» tra soldati, il via alla resistenza: «Credo che se ne sia parlato solo nei plotoni di qualche ufficiale più risoluto. Furono i bombardamenti degli Stukas a unirci tutti in battaglia, tutti d’accordo». La mattanza comincia così: «Avevamo catturato 150 tedeschi, i carabinieri di guardia stavano addirittura fraternizzando con alcuni di loro». Ma quando sopraggiunge la resa italiana arrivarono altri gebirgsjäger, i cacciatori di montagna. «E uccidono alcuni dei nostri davanti a me, d’improvviso». Bruno fugge, si toglie la divisa e si nasconde presso dei greci. Un volantino nemico che invita gli italiani superstiti a consegnarsi, «altrimenti il villaggio brucerà», lo induce a rivestire il grigioverde e presentarsi ai tedeschi. «Non volevo mettere a rischio nessuno» spiega con semplicità.
La deportazione
Finisce così su un treno diretto a Leopoli, in uno stalag «dove si moriva di fame». Qui la Wehrmacht cerca dei meccanici: Bruno si offre con altri tre, «i trentini Ribaga e Bonatta e poi Bulgarelli, uno della pianura padana». Il quartetto finisce a lavorare in un gigantesco deposito di panzer, auto e moto. A vigilare ci sono le SS. Tutte in fuga quando da quelle parti il fronte crolla. L’ordine di fucilare i meccanici — «36 tra italiani, russi, ebrei tedeschi e polacchi» — viene disatteso da chi comanda, «un viennese che odiava Hitler». Li fa salire «su un carro bestiame lasciato aperto e non appena il treno è fuori città saltiamo giù». Vagano per la steppa e vengono catturati dai partigiani polacchi. «Ci puntarono i parabellum in faccia... Italianski kaputt». Non li ammazzano ma li mettono a pelare patate, poi li consegnano ai russi. Che li fanno marciare per centinaia di chilometri sino a Mosca.
Bruno Bertoldi: «Così sono sopravvissuto all’eccidio di Cefalonia»
«Se torni, cerca mio figlio»
Spossato, «Bulgarelli crolla a terra e una guardia gli spara in testa». I tre finiscono prima a Tambov e poi a Tashkent. Sempre più a Est e trenta gradi sottozero. Una notte Bonatta, ridotto a uno scheletro, prima di morirgli tra le braccia gli chiede: «Se torni, vai da mia moglie e saluta nostro figlio. È nato dopo che sono partito, non l’ho mai visto». Bruno rientra a casa nel Natale 1945. Va subito a casa di Bonatta, a Tione. Quel bambino, che oggi ha poco più di settant’anni, lo incontra regolarmente ogni Natale.
(La vicenda umana di Bruno è immensa, epica, romanzesca, allegra talvolta, ma assai più spesso drammatica e dolente. Chi volesse conoscerla per intero può leggere il libro di memorie che l’ex sergente maggiore della Acqui ha scritto a quattro mani con Antonio Testini, professore liceale a Bolzano. Un’emozionante e lunga intervista intitolata «Mi ricordo, sì mi ricordo. Memorie di Bruno Bertoldi» e pubblicata in collaborazione con la Biblioteca Provinciale Italiana «Claudia Augusta». C’è anche il racconto di quando il soldato della divisione Acqui rientra finalmente in Italia, il 23 dicembre 1945: è malandato, denutrito. Giunto in treno nel paesino in Trentino dove ha sempre vissuto, cade nello scendere dal vagone — i macchinisti inspiegabilmente non se ne accorgono, nonostante le premure mostrate in precedenza nel caricarlo e assisterlo — e crolla in mezzo alla neve nella notte: ci sono -10°. Ma è destino che che Bruno debba farcela: ore dopo, mentre lui pensava fosse arrivata la fine passa un ferroviere che sente dei lamenti. Lo soccorre, lo salva dall’assideramento certo. Finalmente rivede i suoi. Anni dopo, operaio in una fabbrica a Bolzano, si ritrova nella stessa officina con alcune ex Ss che lo avevano tenuto prigioniero a Minsk. «Non ci denunciare», lo implorano. Bruno non li denuncia. Mentre lo dice scuote la testa e alza le spalle, poi guarda fuori dalla finestra da cui si vedono le Alpi che troneggiano maestose attorno alla Val d’Adige. Le cime sono già imbiancate e piove. )