Battaglia di Stalingrado 23 agosto 1942 – 2 febbraio 1943 (parte III) La vittoria sovietica

Con una gigantesca manovra a tenaglia, l'Operazione Uranus, ha inizio la fase decisiva nella battaglia di Stalingrado. La grande offensiva di accerchiamento sferrata dall'Armata Rossa per intrappolare le forze della Wehrmacht segna la svolta strategica irreversibile a favore dell'Unione Sovietica. Poi il successo dell'Operazione Piccolo Saturno decretò definitivamente il fallimento dei piani tedeschi, l'Operazione Tempesta invernale, per liberare le forze intrappolate a Stalingrado. La lunga battaglia volgeva ormai al termine con esiti disastrosi per le armate tedesche.
A cura di Giuseppe Bufardeci

“Ma Stalin dove è andato a prenderle queste divisioni? Sulla Luna?”
Dal quartier generale di Hitler di Rastenburg. (Commento ironico ai vaghi sospetti del servizio d’informazioni della 6a armata che sia a nord che a sud di Stalingrado si stiano concentrando truppe nemiche).
Il piano per una grande controffensiva contro la 6a armata, considerando la disastrosa impazienza di Stalin dell’estate precedente, aveva avuto una gestazione piuttosto lunga.
Il 12 settembre, Stalin disse ai generali Vasilevskij (capo di Stato Maggiore generale) e Žukov: “Andate allo Stato Maggiore generale e riflettete molto attentamente su quello che si dovrebbe fare a Stalingrado”.
Tornarono la sera successiva, colti di sorpresa da una borghese stretta di mano di Stalin. “Bene, che cosa avete escogitato?” chiese. “Chi riferisce?” “Entrambi” rispose Vasilevskij. “Siamo dello stesso parere”.
La città di Stalingrado, sostennero, doveva essere tenuta con una battaglia di logoramento, con truppe sufficienti a tenere in piedi le difese. Non si dovevano sprecare formazioni in attacchi minori, a meno che non fosse assolutamente necessario distogliere il nemico dalla conquista dell’intera sponda occidentale del Volga. Poi mentre i tedeschi si concentravano interamente sulla conquista della città, lo STAVKA avrebbe riunito in segreto armate fresche dietro le linee in vista di un grande accerchiamento, effettuando attacchi in profondità.
All’inizio Stalin non manifestò un grande entusiasmo. Temeva si potesse perdere Stalingrado e subire così l’ennesima umiliazione, ma alla fine capì i vantaggi di quell’operazione molto più ambiziosa.
Al contrario di Hitler, Stalin non aveva remore ideologiche. Dopo i disastri del 1941, non gli ripugnava affatto riprendere l’odiato pensiero militare degli anni venti e dei primi anni trenta. La teoria delle “operazioni in profondità” con “armate d’assalto” meccanizzate per annientare il nemico non doveva più essere considerata eretica. Diede il suo pieno appoggio e raccomandò la massima segretezza. “Oltre a noi tre nessuno per il momento deve venirlo a sapere”. L’offensiva sarebbe stata chiamata operazione Uranus.
La vittoria ha sempre molti padri, così la paternità della vittoria di Stalingrado fu rivendicata da molti, ma in realtà fu il frutto della collaborazione straordinaria tra Stalin, Vasilevskij e Žukov, ciascuno dotato a modo suo di talento.
Žukov non voleva ripetere gli errori di attacchi a nord di Stalingrado con truppe poco addestrate, perciò formò e mandò divisioni di riserva d’armata in zone relativamente tranquille del fronte per un addestramento sotto il fuoco. Questo aveva inoltre il vantaggio non intenzionale di confondere i servizi d’informazione tedeschi. Il colonnello Gehlen, il capo molto abile, ma sopravvalutato, dell’intelligence dell’esercito dell’Ostfront, sospettava che i sovietici stessero preparando un’offensiva diversiva contro il gruppo di armate di Centro.
Segreto assoluto e piani diversivi erano fondamentali per nascondere i preparativi, ma l’Armata Rossa aveva altri due vantaggi, ancora più efficaci, a suo favore. Il primo era che Hitler si rifiutava di credere che l’Unione Sovietica avesse armate di riserva, tantomeno le grosse formazioni corazzate necessarie alle operazioni in profondità. Il secondo pregiudizio tedesco era ancora più utile ai sovietici, anche se Žukov non volle mai riconoscerlo. Tutti gli attacchi inefficaci lanciati contro il XIV Panzerkorps sul fianco settentrionale vicino a Stalingrado, avevano fatto apparire l’Armata Rossa incapace di organizzare un’offensiva pericolosa nella regione, e meno che mai un rapido e massiccio accerchiamento dell’intera 6a armata.
Durante l’estate, il generale Halder aveva detto ad Hitler che l’Unione Sovietica produceva 1.200 carri armati al mese, mentre la Germania 500. Hitler aveva risposto che era semplicemente impossibile. Eppure quella cifra era lontana dalla realtà. Nel 1942 la produzione sovietica di carri era cresciuta da 11.000 durante i primi sei mesi a 13.600 durante la seconda metà dell’anno, a una media di 2.200 carri al mese. Anche la produzione di velivoli era passata negli stessi periodi dell’anno da 9.600 a 15.800. Il solo suggerimento che l’Unione Sovietica, priva delle zone più importanti, potesse produrre più del Reich, riempiva Hitler di rabbia e incredulità. I leader nazisti si erano sempre rifiutati di riconoscere il sentimento patriottico russo. Sottovalutavano inoltre l’implacabile programma di evacuazione dell’industria e la militarizzazione della mano d’opera. Più di 1.500 industrie erano state smontate e riassemblate a est del Volga, in particolare negli Urali. Fu il grande sacrificio della popolazione, forzoso e volontario, ma con risultati impressionanti.
In un periodo in cui Hitler rifiutava di impiegare donne e bambini nell’industria, la produzione sovietica dipendeva dalla mobilitazione di massa di madri e figlie. Esse credevano appassionatamente in quello che facevano per aiutare i loro uomini al fronte.
L’aiuto alleato, per motivi di propaganda, non è citato molto spesso nei resoconti sovietici, ma il contributo al mantenimento della capacità di combattimento dell’Armata Rossa nell’autunno del 1942 non deve essere sottovalutato. I veicoli americani, specialmente jeep Willys e camion Ford Studebaker e i viveri, dal grano alla carne in scatola, aiutarono enormemente, anche se non fu riconosciuto, la capacità di resistenza dell’Unione Sovietica.
Žukov voleva i comandanti adatti in una guerra meccanizzata. Convinse Stalin a nominare il generale Konstantin Rokossovskij, comandante del fronte del Don che si allungava dall’estremità settentrionale di Stalingrado verso ovest fino a Kletskja, poco al di là della grande ansa del fiume. Nello stesso tempo il generale Nikolai Vatunin assunse il comando del nuovo fronte del sud occidentale sul fianco destro di Rokossovskij, di fronte alla 3a armata rumena.
Il 17 ottobre in una fascia di 25 chilometri dalla linea del fronte fu ordinato lo sgombero di tutti i civili. Fu un’operazione notevole, dal momento che essi avrebbero portato via tutto il cibo e bestiame. Oltre ai motivi di sicurezza i militari volevano avere la possibilità di nascondere le truppe nei villaggi durante le operazioni di avvicinamento al fronte.
Dalla nuova linea ferroviaria Saratov-Astrakhan molte diramazioni giungevano alle stazioni terminali nella steppa, dove le truppe si sarebbero concentrate prima di portarsi al fronte. Furono inviati 1.300 vagoni al giorno ai tre fronti, lo sforzo per le ferrovie sovietiche fu enorme. La confusione inevitabile. Una divisione fu caricata su convogli ferroviari e poi lasciata in attesa per quasi due mesi e mezzo in una stazione secondaria nell’Uzbekistan.
Il piano dell’operazione Uranus era semplice eppure audace ed ambizioso nei suoi scopi. L’attacco principale doveva svolgersi a più di 160 chilometri a ovest di Stalingrado, sarebbe stato lanciato in direzione sud-est dalla testa di ponte di Serafimocič, una zona a di circa 60 chilometri a sud del Don, che la 3a armata rumena non era riuscita ad occupare per mancanza di forze. Il punto scelto era così lontano dalle retrovie della 6a armata che non sarebbero potute arrivare in tempo per influire sull’esito della battaglia.
Situazione del fronte di Stalingrado alla vigilia dell’operazione Uranus.
Nel frattempo, un attacco più interno sarebbe partito da un’altra testa di ponte a sud del Don a Kletskja, poi avrebbe colpito alle spalle XI corpo d’armata di Strecker allungato sull’ansa grande e più piccola del Don. Infine da sud di Stalingrado, un altro attacco corazzato in direzione nord-ovest si sarebbe incontrato con il movimento principale attorno a Kalač, completando l’accerchiamento della 6a armata e di parte della 4a Panzerarmee di Hoth. Sarebbero state impegnate circa il 60% delle forze corazzate dell’Armata Rossa.
Le misure di sicurezza per mantenere il segreto sull’operazione furono pressoché perfette. La disinformazione, la mimetizzazione e la sicurezza operativa, traffico radio ridottissimo e ordini recapitati a mano, furono applicati magistralmente.
Naturalmente non si poteva sperare di nascondere completamente l’operazione imminente, ma il risultato più grande fu quello di nascondere la vastità dell’operazione.
La maggior parte dei generali, pur non condividendo l’opinione di Hitler secondo cui l’Armata Rossa era finita, la consideravano sicuramente vicina all’esaurimento. Gli ufficiali di Stato Maggiore invece erano più scettici. Al capo dei servizi d’informazione della 6a armata, colonnello Niemeyer erano chiari i concentramenti di truppe a nord e sud di Stalingrado, ma gli ufficiali superiori, anche se preoccupati di una interruzione delle linee di comunicazione, non consideravano seriamente la possibilità di un accerchiamento. Paulus dopo il dramma, umanamente, si convinse di avere sempre saputo dov’era il pericolo, ma il suo capo di Stato Maggiore, generale Schmidt, fu assolutamente onesto nell’ammettere di aver gravemente sottovalutato il nemico.
In Germania, la maggior parte dei generali era convinta che l’Armata Rossa non fosse in grado di sferrare due offensive, e i servizi d’informazione indicavano che se proprio fosse in preparazione un’offensiva, quelle minacciate erano le armate del gruppo di Centro. La presenza della 5a armata corazzata sovietica sul fronte del Don davanti ai rumeni non era stata individuata.
L’aspetto più incredibile di questo periodo era che Paulus e Schmidt sembravano pensare che, una volta comunicati i rapporti, non restasse nient’altro da fare, dal momento che i settori minacciati erano fuori dalla loro zona. Questa passività era contraria alla tradizione prussiana che considerava l’inattività, l’attesa di ordini e l’incapacità a pensare da soli un difetto imperdonabile in un comandante. Certo, Hitler aveva fatto di tutto per impedire questa indipendenza dei suoi generali, e Paulus, per natura più ufficiale di Stato Maggiore che comandante sul campo, vi si era sottomesso.
A Paulus è stato spesso rimproverato di non aver disobbedito a Hitler in seguito, quando l’ampiezza del disastro divenne chiara, ma il suo vero fallimento consisteva nel non aver saputo prepararsi ad affrontare la minaccia. Era la sua armata ad essere minacciata. Bastava ritirare gran parte dei suoi carri dalla dispendiosa battaglia in città e si sarebbe ritrovato con una massiccia forza meccanizzata pronta a reagire con rapidità. Riorganizzando i depositi di munizioni ed equipaggiamenti, si sarebbe assicurato una pronta capacità di movimento dei suoi veicoli, anche con un breve preavviso. Questi preparativi relativamente esigui e la disobbedienza al quartier generale del Führer, avrebbero permesso alla 6a armata di difendersi efficacemente nel momento cruciale.
Hitler, fin dal 30 giugno, aveva stabilito che le formazioni non avrebbero dovuto mettersi in comunicazione con le unità limitrofe, ma questa volta l’ordine fu ignorato. Schmidt distaccò un ufficiale della 6a armata, il tenente Stöck1, con un apparecchio radio presso l’armata rumena.
I primi segni di un concentramento di truppe era apparso già dai primi di ottobre. Il generale Dimitrescu comandante della 3a armata rumena, sosteneva che avrebbe potuto difendere il suo settore solo se avesse tenuto la sponda del Don, usando il fiume stesso come principale ostacolo anticarro. Egli aveva già in settembre ripetuto il concetto agli alleati tedeschi, ma questi pur riconoscendo la fondatezza del suggerimento, rifiutarono di distrarre truppe dall’obbiettivo Stalingrado, la cui cattura era ritenuta imminente.
I rumeni quando cominciarono a notare il concentramento di truppe nemiche divennero sempre più ansiosi. Le loro divisioni erano a ranghi incompleti, non avevano efficaci armi anticarro, l’artiglieria era a corto di munizioni perché la priorità del rifornimento spettava alla 6a armata ed infine anche i carri leggeri Skoda di cui erano forniti non potevano certo competere con i T-34 russi.
Lo Stato Maggiore rumeno riferì le sue preoccupazioni anche il 29 ottobre, ma Hitler che aspettava notizie dell’imminente caduta di Stalingrado, era distratto anche da altri eventi di capitale importanza. Rommel si stava ritirando dalla battaglia di El Alamein e c’erano notizie di una flotta angloamericana diretta verso il nord Africa (operazione Torch). Un altro problema era che i rumeni si aspettavano sempre che l’offensiva si scatenasse nelle ventiquattro ore successive e quando non succedeva niente, in particolare dopo che il venticinquesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre era trascorso senza che succedesse niente, la cosa cominciava ad avere lo stesso effetto della nota esclamazione: “Al lupo, al lupo”.
D’altro canto il generale von Richthofen era sempre più convinto delle prove fornitegli dalla sua ricognizione aerea. Aveva scritto: “Sul Don, i russi continuano decisi la loro preparazione per un’offensiva contro i rumeni. Quando mi chiedo ci sarà l’attacco?” I suoi bombardieri cominciarono ad attaccare queste truppe per ostacolarne la marcia di avvicinamento al Don.
Gli avvertimenti al quartier generale di Hitler si moltiplicavano. Egli si metteva al riparo emanando ordini per il rafforzamento dei rumeni con truppe tedesche e campi minati, ma rifiutava di accettare il fatto che non fossero disponibili né risorse né formazioni di rincalzo.
Teoricamente c’era di riserva, per rafforzare il fianco settentrionale, il XXXXVIII Panzerkorps, una grossa forza formata dalla 14a e 22a Panzerdivision oltre a un battaglione controcarri e uno d’artiglieria motorizzata, ma, ad un esame più attento, tale forza era molto meno impressionante di quel che appariva. La 14a, appiedata durante i combattimenti a Stalingrado non era ancora stata riorganizzata e la 22a era rimasta a corto di carburante. Durante il periodo di immobilità, i topi avevano cercato riparo dal maltempo negli scafi dei carri rosicchiandone i cavi elettrici, che al momento non c’era possibilità di sostituire.
In fin dei conti nonostante gli avvertimenti provenienti da più parti, la minaccia al fianco settentrionale non era stata presa sul serio.
Le condizioni atmosferiche e la logistica ai primi di novembre ritardarono la marcia di avvicinamento dell’Armata Rossa. A Žukov toccò il non invidiabile compito di comunicare ad un ansiosissimo Stalin che l’offensiva andava rimandata al 19 novembre.
In questo periodo, la preoccupazione principale a Mosca era la mancanza di informazioni attendibili sulla situazione del morale della 6a armata. Finalmente il 9 novembre, al generale Ratov dei servizi d’informazione venne consegnato un documento proveniente dalla 384a divisione di fanteria dall’altra parte dell’ansa piccola del Don, composta da reggimenti sassoni e austriaci. Capì immediatamente di essere in possesso della prova che avevano atteso da tanto tempo. Copie tradotte furono mandate a Stalin ed ai maggiori dirigenti sovietici. Ratov immaginava già la gioia che il contenuto di quel documento avrebbe suscitato nel cuore del Grande Leader. Era doppiamente incoraggiante dal momento che questa formazione di Dresda non era rimasta coinvolta nei combattimenti a Stalingrado.
“Sono perfettamente consapevole dello stato della divisione”, scriveva il generale von Gablenz a tutti i comandanti della 384a divisione di fanteria. “So che non ci sono rimaste più forze. Non mi sorprende e farò ogni sforzo per migliorare le condizioni della divisione, ma la battaglia è ancora aspra e diventa ogni giorno più aspra. E’ impossibile cambiare la situazione. Lo stato letargico in cui versa la maggior parte dei soldati deve essere corretto da una guida più attiva. I comandanti devono essere più severi. […]”. Gli ufficiali erano incaricati di avvertire i soldati che “dovevano presumere di rimanere in Russia tutto l’inverno”.
Sui tre fronti “dell’asse Stalingrado”si trovava concentrato poco più di un milione di uomini. Il generale Smirnov, capo della sanità, aveva preparato 119 ospedali da campo con 62.000 posti letto. Gli ordini furono consegnati solo tre ore prima dell’attacco. Le truppe erano eccitate e orgogliose al pensiero che i tedeschi non sapessero cosa li avrebbe colpiti.
In quella vigilia, i tedeschi non si accorsero che il giorno successivo sarebbe stato molto diverso. Il rapporto della 6a armata era breve: “Nessun mutamento rilevante su tutto il fronte. Sul Volga banchi di ghiaccio più sottili di ieri”.
Quella notte un soldato in attesa di licenza, scrisse a casa, riflettendo sul fatto che si trovava “a 3.500 chilometri dalla frontiera tedesca”.