ANNIVERSARIO DELL'ATTENTATO DI NASSIRIYA
PER NON DIMENTICARE
Il 12 novembre 2003 (due anni, due mesi e un giorno dopo l’attentato alle Torri Gemelle, l’origine di tutto) un’autocisterna blu irruppe nella Base Maestrale di Nassiriya, una delle due sedi dell’Operazione Antica Babilonia (la missione di pace italiana in Iraq, avviata qualche mese prima con la partecipazione di tremila uomini, 400 dei quali appartenenti all’Arma dei Carabinieri). L’autocisterna esplose all’interno della base. Crollò gran parte dell’edificio principale, mentre fu gravemente danneggiata una seconda palazzina dove aveva sede il comando. I vetri delle finestre del complesso andarono in frantumi. Nel cortile davanti alla palazzina molti mezzi militari presero fuoco. In fiamme anche il deposito delle munizioni. Il bilancio fu devastante: 28 morti, dei quali 19 italiani (e fra questi dodici carabinieri). Il traffico nella zona circostante impazzì, mentre la popolazione scendeva in strada in preda al panico.
Così, avemmo anche noi il nostro 11 settembre. «C’è un grande cratere dove prima si trovava il parcheggio, a meno di 10 metri dalla facciata devastata della palazzina a tre piani», raccontò un giornalista. Il giorno successivo il ministro della Difesa Antonio Martino, accorso sul posto, aggiunse una considerazione, dolorosa, ma niente affatto retorica: «Quel cratere è il nostro Ground Zero». A New York, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, furono vendute oltre centomila bandiere a stelle e strisce. Nel momento della sventura, i cittadini americani dimostrarono il loro orgoglio nazionale, come fanno gli uomini fortiL’Italia si comportò nello stesso modo. Il giorno prima dei funerali, nella camera ardente, il Presidente della Repubblica abbracciò a lungo, come un fratello, il padre del maresciallo Alfonso Trincone. Gli italiani abbracciarono allo stesso modo tutti i parenti delle vittime, riconoscendosi nel gesto spontaneo di Carlo Azeglio Ciampi. Fu indimenticabile il tributo della folla. Una coda infinita davanti al Vittoriano. Che si ingrossava di ora in ora, che resisteva durante la notte, che s’infoltiva ancora al mattino successivo, il giorno dei funerali. E poi il silenzio della gente al passaggio del corteo funebre verso la basilica di San Paolo fuori le Mura, i camion con i feretri, scortati dai Corazzieri a cavallo, a passo d’uomo. Scrisse con ammirazione l’intellettuale francese André Glucksmann: «Un popolo in lacrime, ma dignitoso e raccolto, si eleva all’altezza del compito. Ha compreso che i suoi carabinieri sono stati assassinati in una terra lontana perché l’Italia ha insegnato all’Europa l’arte e la dolcezza di vivere insieme in una società “civile”, sfuggendo alla legge della sciabola e del ricatto terroristico»..Martedì 18 novembre 2003 – mentre a Roma si celebravano i solenni funerali ai Caduti – nel campo italiano di Nassiriya il trombettiere intonava il Silenzio davanti alla bandiera a mezz’asta. Un ufficiale si confidò con un giornalista: «Il silenzio è una costante degli ultimi giorni. La sera, in mensa, stavamo tutti muti, incollati alla tv, stupefatti e commossi. Quelle file davanti all’Altare della Patria, le vecchiette, i giovani in coda per rendere omaggio ai morti. Gli striscioni per le strade di Roma. Io ero branda a branda con Ficuciello, uno dei ragazzi uccisi. Lo vedo ancora che si mette il giubbotto antiproiettile prima di uscire per l’ultima volta. È tremendo. Mi fa bene vedere che... le mamme d’Italia si sono strette intorno ai morti come fossero figli loro. Questo ci ha aiutato tantissimo».
I militari rimasti laggiù hanno preso un’iniziativa che spiega nel migliore dei modi lo spirito con cui i nostri uomini affrontano le missioni di pace: una raccolta di fondi per aiutare le vittime irachene di quella autocisterna carica di tritoloI Carabinieri erano amati dalla popolazione. «Per loro è più facile», commentarono in molti in Italia: «Loro sono abituati a tenere i rapporti sul territorio, a stare dalla parte dei cittadini. Nelle Stazioni dei paesi il maresciallo è un amico, come il farmacista». L’allora Comandante Generale dell’Arma Guido Bellini, quando ricevette la notizia della tragedia, commentò a bassa voce; «È come se avessi perso i miei figli». Poi aggiunse, con giusta fierezza: «Non uno dei nostri ragazzi ha chiesto di rientrare. Anzi, abbiamo un elenco lungo così di richieste per partire». Il giorno stesso del funerale, i feriti non vedevano l’ora di tornare in Iraq. «Questo è il nostro lavoro», dicevano, «e continueremo a farlo».
Tra i feriti nella strage, presenti al funerale nella basilica di San Paolo fuori le Mura, c’era anche, come già accennato, il maresciallo Marilena Iacobini, l’unica donna del contingente, ricoverata nell’ospedale militare del Celio per le ferite riportate nell’attentato. «Mi sono buttata a terra, d’istinto. Mi sono salvata così», raccontava. «Mi sposerò, avrò dei figli. A uno darò il nome del maresciallo Filippo Merlino, che è morto proprio accanto a me». E un altro sopravvissuto, il maggiore Claudio Cappello, spiegò che si trovava nella sua stanza, con due marescialli e un appuntato: «Mi sono alzato dalla scrivania, sono uscito un momento, un secondo dopo ho sentito il boato: la mia stanza non c’era più. Mi sono affacciato in una crepa e ho visto i morti per terra, sentivo le urla del maresciallo Marilena Iacobini».
Alla strage di Nassiriya gli italiani reagirono con grande orgoglio, con compostezza, con dolore autentico, con pudore, e pure senza vergogna di esprimere fino in fondo i propri sentimenti. Nei giorni immediatamente seguenti alla tragedia, si affacciarono dai balconi e dalle finestre, in tutta Italia, moltissime bandiere tricolori. Testimoniavano lo sgomento di fronte a un dramma immane, la vicinanza alle famiglie dei Caduti: in altre parole, amor di Patria.
Ad oltre dieci anni di distanza, quei sentimenti restano immutati, anche se noi italiani, espansivi e chiassosi nella vita quotidiana, nascondiamo con pudore lo spirito di comunità che però emerge nelle occasioni di un grande dolore: quando un terremoto sconvolge una regione, o quando qualcuno ci offende, o ancora quando dobbiamo piangere la morte di diciannove uomini, caduti in una terra lontana per aiutare la popolazione civile lacerata da una guerra.
Così, avemmo anche noi il nostro 11 settembre. «C’è un grande cratere dove prima si trovava il parcheggio, a meno di 10 metri dalla facciata devastata della palazzina a tre piani», raccontò un giornalista. Il giorno successivo il ministro della Difesa Antonio Martino, accorso sul posto, aggiunse una considerazione, dolorosa, ma niente affatto retorica: «Quel cratere è il nostro Ground Zero». A New York, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, furono vendute oltre centomila bandiere a stelle e strisce. Nel momento della sventura, i cittadini americani dimostrarono il loro orgoglio nazionale, come fanno gli uomini fortiL’Italia si comportò nello stesso modo. Il giorno prima dei funerali, nella camera ardente, il Presidente della Repubblica abbracciò a lungo, come un fratello, il padre del maresciallo Alfonso Trincone. Gli italiani abbracciarono allo stesso modo tutti i parenti delle vittime, riconoscendosi nel gesto spontaneo di Carlo Azeglio Ciampi. Fu indimenticabile il tributo della folla. Una coda infinita davanti al Vittoriano. Che si ingrossava di ora in ora, che resisteva durante la notte, che s’infoltiva ancora al mattino successivo, il giorno dei funerali. E poi il silenzio della gente al passaggio del corteo funebre verso la basilica di San Paolo fuori le Mura, i camion con i feretri, scortati dai Corazzieri a cavallo, a passo d’uomo. Scrisse con ammirazione l’intellettuale francese André Glucksmann: «Un popolo in lacrime, ma dignitoso e raccolto, si eleva all’altezza del compito. Ha compreso che i suoi carabinieri sono stati assassinati in una terra lontana perché l’Italia ha insegnato all’Europa l’arte e la dolcezza di vivere insieme in una società “civile”, sfuggendo alla legge della sciabola e del ricatto terroristico»..Martedì 18 novembre 2003 – mentre a Roma si celebravano i solenni funerali ai Caduti – nel campo italiano di Nassiriya il trombettiere intonava il Silenzio davanti alla bandiera a mezz’asta. Un ufficiale si confidò con un giornalista: «Il silenzio è una costante degli ultimi giorni. La sera, in mensa, stavamo tutti muti, incollati alla tv, stupefatti e commossi. Quelle file davanti all’Altare della Patria, le vecchiette, i giovani in coda per rendere omaggio ai morti. Gli striscioni per le strade di Roma. Io ero branda a branda con Ficuciello, uno dei ragazzi uccisi. Lo vedo ancora che si mette il giubbotto antiproiettile prima di uscire per l’ultima volta. È tremendo. Mi fa bene vedere che... le mamme d’Italia si sono strette intorno ai morti come fossero figli loro. Questo ci ha aiutato tantissimo».
I militari rimasti laggiù hanno preso un’iniziativa che spiega nel migliore dei modi lo spirito con cui i nostri uomini affrontano le missioni di pace: una raccolta di fondi per aiutare le vittime irachene di quella autocisterna carica di tritoloI Carabinieri erano amati dalla popolazione. «Per loro è più facile», commentarono in molti in Italia: «Loro sono abituati a tenere i rapporti sul territorio, a stare dalla parte dei cittadini. Nelle Stazioni dei paesi il maresciallo è un amico, come il farmacista». L’allora Comandante Generale dell’Arma Guido Bellini, quando ricevette la notizia della tragedia, commentò a bassa voce; «È come se avessi perso i miei figli». Poi aggiunse, con giusta fierezza: «Non uno dei nostri ragazzi ha chiesto di rientrare. Anzi, abbiamo un elenco lungo così di richieste per partire». Il giorno stesso del funerale, i feriti non vedevano l’ora di tornare in Iraq. «Questo è il nostro lavoro», dicevano, «e continueremo a farlo».
Tra i feriti nella strage, presenti al funerale nella basilica di San Paolo fuori le Mura, c’era anche, come già accennato, il maresciallo Marilena Iacobini, l’unica donna del contingente, ricoverata nell’ospedale militare del Celio per le ferite riportate nell’attentato. «Mi sono buttata a terra, d’istinto. Mi sono salvata così», raccontava. «Mi sposerò, avrò dei figli. A uno darò il nome del maresciallo Filippo Merlino, che è morto proprio accanto a me». E un altro sopravvissuto, il maggiore Claudio Cappello, spiegò che si trovava nella sua stanza, con due marescialli e un appuntato: «Mi sono alzato dalla scrivania, sono uscito un momento, un secondo dopo ho sentito il boato: la mia stanza non c’era più. Mi sono affacciato in una crepa e ho visto i morti per terra, sentivo le urla del maresciallo Marilena Iacobini».
Alla strage di Nassiriya gli italiani reagirono con grande orgoglio, con compostezza, con dolore autentico, con pudore, e pure senza vergogna di esprimere fino in fondo i propri sentimenti. Nei giorni immediatamente seguenti alla tragedia, si affacciarono dai balconi e dalle finestre, in tutta Italia, moltissime bandiere tricolori. Testimoniavano lo sgomento di fronte a un dramma immane, la vicinanza alle famiglie dei Caduti: in altre parole, amor di Patria.
Ad oltre dieci anni di distanza, quei sentimenti restano immutati, anche se noi italiani, espansivi e chiassosi nella vita quotidiana, nascondiamo con pudore lo spirito di comunità che però emerge nelle occasioni di un grande dolore: quando un terremoto sconvolge una regione, o quando qualcuno ci offende, o ancora quando dobbiamo piangere la morte di diciannove uomini, caduti in una terra lontana per aiutare la popolazione civile lacerata da una guerra.