1908: l’adozione del panno grigio-verde da parte del Regio Esercito

Dopo il felice esperimento fatto a Roma dal “47° Reggimento Fanteria“, una parte di alcuni uomini vestivano già la nuova uniforme, la quale presto veniva estesa ed adottata da tutto l’Esercito Nazionale a partire dal 1908. Il colore prescelto fu il grigio-verdognolo che rende il soldato quasi invisibile a qualche centinaio di metri. In essa è soppresso completamente il kepi come pure il cappotto che viene sostituito da una giubba di panno spesso più lunga dell’attuale con quattro tasche cui va ad aggiungersi nel periodo invernale una mantellina di panno nero. pantaloni terminano ad imbuto chiudendosi con legacci all’estremità inferiore, dove sono rinserrati dalle scarpe ad alti gambali. Quindi niente più uose (tipo di ghette basse che proteggono la caviglia, coprono la parte alta della scarpa e la parte bassa del polpaccio fornendo una protezione al punto di congiunzione tra la calzatura e i pantaloni. Non sono da confondersi con degli stivaletti poiché non hanno la parte inferiore, niente suola o tacco): in compenso si ha un panciotto sempre di panno grigio che permetterà di portare nel periodo estivo la tunica aperta sul petto. Al bavero rovesciato verrà sostituito quello dritto alla tedesca.Tale divisa verrà adottata da tutti i corpi, con lievi varianti. Servirà per le manovre, per le esercitazioni e per la guerra. Anche l’equipaggiamento dei soldati è mutato. Allo zaino viene sostituita una borsa-zaino di tela impermeabile e sul davanti due giberne snodate, le quali  permettevano di portare un maggior numero di cartucce. In ogni zaino era presente un paio di scarpe di tela per il ricambio, anziché di cuoio, per riposare e rinfrescare il piede. L’attuale equipaggiamento completo pesa poco meno di 19 kg: il nuovo invece 13,5 kgIl primo utilizzo delle nuove dotazioni avvenne il 29 settembre del 1911: dopo un ultimatum che concesse all’Impero Ottomano ventiquattro ore di tempo per sottomettersi alla pretese italiane, il governo Giolitti dichiara guerra alla Turchia. Coerentemente con tutta la sua impostazione politica, Giolitti era sempre stato contrario alle avventure coloniali e neppure in tale ora gli sorrise mai l’idea di impegnare le già scarse risorse dell’Italia in un conflitto che sarà in ogni caso dispendioso. Ma al punto in cui giunsero gli eventi, dopo un’intensa campagna di stampa che vide scendere in lizza anche il poeta Pascoli Giolitti, se non cambiò opinione sul conflitto fu stato costretto a modificare la tattica, forse anche nella convinzione di poter imbrigliare con la guerra l’opposizione di destra.L’intervento in Libia avviene grazie alle pressioni degli ambienti economici e dell’alta finanza, appoggiate dalle esortazioni dei nazionalisti, nonché dalla volontà di effettuare una concessione politica alle destre, dopo tanti appoggi concessi alla sinistra.  Sul conto della Libia corrono inoltre voci di mirabolanti ricchezze naturali, le quali aspettano solo di essere portate alla luce e sfruttate. Si tratta in realtà di argomenti fantasiosi, fatti apposta per giustificare un’impresa dettata solo da considerazioni di prestigio e da fattori emotivi. Alla fine di settembre Giolitti manda improvvisamente il suo ultimatum ai turchi protestando contro il rafforzamento delle basi militari ottomane in Libia e contro la provocatoria ostilità turca data dalla penetrazione economica italiana. Il governo italiano dichiarò che l’occupazione da parte dell’Italia è imposta “dalle esigenze generali della civiltà
Alla stesura dell’ultimatum collabora attivamente il Ministro degli Esteri Antonio di San Giuliano, ex sindaco di Catania di tendenze conservatrici e triplicista convinto. Ricevendo l’ultimatum italiano i turchi non hanno che due alternative:
_cedere e consegnare all’Italia la Libia;
_combattere.
L’Impero Ottomano è l’ombra di se stesso e il sultano, piuttosto di imbarcarsi in un conflitto, è disposto a far concessioni. Ma Giolitti ormai si è fatto prendere la mano dai bellicisti a oltranza. L’Italia si appresta così con eccessivo ottimismo nello scendere in guerra. Dal punto di vista strategico e militare l’impreparazione italiana risulta pressoché assoluta: le forze armate non sono state adeguatamente preavvertite e scarseggiano i rifornimenti come anche le armi.
L’unica industria in grado di fornire attrezzature moderne anche in campo bellico è la Fiat di Torino che viene indotta ad intensificare la produzione. Il poco o nulla di serio che si è fatto per prepararsi militarmente alla guerra africana è anche la conseguenza di un’errata valutazione della realtà libica: si è infatti convinti da molte parti, che basti una campagna di poche settimane e qualche cannonata ben assestata per disperdere le deboli guarnigioni turche. Si possedeva la convinzione, sul fondamento di informazioni interessate, che le tribù indigene berbere, pur di liberarsi dai turchi oppressori, siano pronte a solidarizzare con le liberatrici truppe italiane comandate del Generale Caneva.
Viceversa l’una e l’altra previsione si riveleranno sbagliate. Così come del tutto errata si rivela l’idea che le grandi potenze si dimostrino indifferenti di fronte all’intervento italiano destinato a sconvolgere gli equilibri politici esistenti nel Mediterraneo.
Persino i governi amici di Vienna e Berlino legati a Roma dal Trattato della Triplice si dichiarano contrari all’impresa libica definendola “una pericolosa e cinica violazione del diritto internazionale”. Comunque sia l’avventura coloniale di Giolitti comincia il 5 ottobre con lo sbarco di truppe italiane a Tripoli e sarà destinata a concludersi dopo un anno di operazioni con un parziale successo italiano: la vittoria tuttavia è limitata dal fattore che il controllo italiano si estende oltre una ristretta fascia costiera del territorio libico ed è stata ottenuta più in virtù della debolezza turca, che dalla potenza italiana. Il Trattato di Losanna del 1912 sancirà il successo dell’Italia e la sua sovranità in terra libica.

.