17 maggio 1941, a Tirana Vasil Laçi attenta alla vita di Vittorio Emanuele III
Dopo la mancata vittoria militare dell'Italia nella guerra contro la Grecia, risolta solo grazie all’intervento tedesco con la completa occupazione dei Balcani, il re Vittorio Emanuele III nel maggio 1941 si recò in Albania per visitare il Protettorato.
Vasil Laçi, un ragazzo di 19 anni, seppe della visita di Vittorio Emanuele agli inizi di maggio e in solitaria ideò e mise in pratica il suo piano di uccidere Vittorio Emanuele III. Riuscì a trovare un lavoro presso l'Hotel International, dove Vittorio Emanuele avrebbe soggiornato e acquistò una pistola Beretta M1915.
Il 17 maggio 1941, Vasil Laci, indossando il costume tradizionale albanese, prese di mira la macchina in cui Vittorio Emanuele e Shefqet Bej Verlaci, primo ministro albanese, viaggiavano accompagnati dai ministri del governo. Sparò quattro colpi verso di loro gridando "Viva l'Albania! Abbasso il fascismo", ma non riuscì ad uccidere nessuno.
Laçi venne arrestato immediatamente e giustiziato per impiccagione dieci giorni dopo. Fu uno dei primi ad essere dichiarato "Eroe popolare d'Albania". Il suo tentativo di assassinare il re d'Italia è stato drammatizzato in primo luogo in un libro e poi in un film nel 1980 intitolato "pallottole per l'imperatore" (in albanese: Plumba Perandorit ). Un monumento a Tirana è stato eretto per onorare le sue azioni.
Il gesto di Laçi fu conseguenza della violenta occupazione italiana dell'Albania iniziata nell’aprile 1939. Il 2 giugno del 1939, a meno di due mesi dall’invasione, era stato costituito il partito fascista albanese, sottoposto direttamente allo stesso Mussolini. Il giorno dopo un decreto aveva imposto a tutti i dipendenti pubblici di giurare fedeltà al re d’Italia e ai suoi discendenti, pena la sospensione dal lavoro. Per consentire lo svolgimento delle operazioni militari in Albania, vennero sgomberate completamente intere zone abitate da civili e furono razziate, per necessità belliche, tutte le risorse disponibili del posto lasciando alla fame migliaia di profughi albanesi cacciati dalle proprie terre e abitazioni:
«[...] le sofferenze erano gravi soprattutto per le popolazioni che avevano dovuto essere evacuate, man mano che la linea dei combattimenti aveva arretrato verso l'interno del paese. I profughi erano 18.781 [...]»
Gli albanesi, già insofferenti per l’occupazione, a seguito dell’impiccagione di Laçi diedero vita ad una rivolta contro l'occupante italiano, che in risposta eseguì con l'esercito, le milizie fasciste e il governo collaborazionista albanese numerose e pubbliche rappresaglie a scopo di monito verso la popolazione civile:
«[...] successivamente per scoraggiare la rivolta il binomio Jacomoni-Kruja ordinò una serie di pubbliche impiccagioni, indiscriminate e fece fucilare una serie di simpatizzanti e partigiani del Pca, presi prigionieri dai fascisti italo-albanesi [...].»
In importanti centri come Valona la resistenza partigiana divenne fenomeno di massa obbligando l'amministrazione italiana all'impiego di centinaia di militari per operazioni di ordine pubblico. Città come Fieri, Berat e Argirocastro, divenuti centri attivi di lotta partigiana, subirono da parte dei miliziani filo-fascisti albanesi rappresaglie e rastrellamenti particolarmente cruenti tanto che nella zona di Skrapari i villaggi investiti dalle operazioni di polizia vennero completamente rasi al suolo e dati alle fiamme, dopo la razzia dei beni civili. Eclatante episodio fu l’eccidio di Mallakasha, dove il Regio Esercito mise in atto un'imponente operazione militare anti-partigiana nei villaggi intorno a Mallakasha e al termine di quattro giorni di combattimento, in cui vennero usati artiglieria pesante e aviazione, tutti gli 80 villaggi della zona vennero rasi al suolo causando la morte di centinaia di civili. L'eccidio di Mallakasha al termine della guerra verrà simbolicamente ricordato dalle autorità albanesi come la "Marzabotto albanese”.
[RM]
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Fonte bibliografica: Davide Conti, 'L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943)’.
Fonte fotografica: Vasil Laçi fotografato probabilmente durante la breve prigionia prima dell’esecuzione della condanna a morte. Fonte sconosciuta.